Suggestioni. Basta buttare l’occhio su una carta geografica, leggere Soldati e Veronelli e, senza nemmeno conoscerla, ti viene in mente un viaggio verso il piacere, la propensione verso qualcosa di alto, di monumentale e allo stesso tempo di microscopico, di particolare, di raro.
Icone. Montagne altissime, coperte di nevi e ghiacci perenni, cielo nitido che in confronto la mia Puglia d’origine è la pianura padana, lo sviluppo impetuoso della Dora Baltea, i castelli merlati che sembrano quelli di un vecchio cartone della Walt Disney e vigne spettacolari aggrappate alla roccia.
Vini. Imprevedibili, spiazzanti, sorprendenti. Al meglio, oserei dire unici, riconoscibili. Anche quelli più moderni, e “civilizzati” faticano a nascondere le proprie origini. Anche i più “autosufficienti” dal punto di vista della personalità (penso allo chardonnay), devono arrendersi al predominio di un terroir fisicamente ingombrante. Puoi smussarne le asperità, vestirlo con gli abiti della festa, ma non riesci a cambiargli il dna, si fatica a plasmarlo. E semmai qualcuno ci riuscisse, sarebbe così geniale – e folle – che dovrebbe cambiare mestiere.
Fatti. La Valle è una regione piccolissima, eppure ricca di enormi diversità. Mi viene in mente un laboratorio artigianale oppure, meglio ancora, un grande giardino botanico. La sua piattaforma ampelografica è tanto ristretta quanto articolata, una sorta di “fiera delle varietà” sconosciute e sopravvissute allo scorrere del tempo. E’ un viaggio tanto breve, quanto ricco di suggestioni. Meno di mezz’ora e passi dai trecento metri della Bassa Valle, ai seicento della Valle centrale, ai mille della Valdigne. Solo cinquecento ettari di vigna (meno dello 0,05% della produzione nazionale), diluiti in ben sette differenti terroir riconosciuti dal disciplinare, senza contare le altre venti tipologie previste dalla legge, e le numerose personalizzazioni legate a ciascuno dei quaranta produttori della regione.
Versatilità. Una qualità sempre più riconosciuta dalla critica e condivisa dagli appassionati, tanto quanto l’originalità e la trasparenza. Tutte doti peculiari di questi vini. Che, assaggi alla mano, e nei casi migliori, sanno anche “resistere” alla bottiglia. Non sono vini longevi, per carità, ma elastici sì, perché si adattano bene allo scorrere del tempo. Non si lasciano spiazzare, continuano a comunicare, a dialogare. Con una produzione meno striminzita (meno di un milione e mezzo di bottiglie totali), una distribuzione più vantaggiosa ed un mercato interno meno vorace, la Valle d’Aosta godrebbe di una visibilità maggiore rispetto a quella attuale. Perchè è uno dei grandi terroir italiani.
Il territorio
La Valle d’Aosta è la più piccola regione del vino italiano. Un decimo della sua superficie è coperta da ghiacciai (300 chilometri quadrati), e quasi tutto il territorio è montuoso. Pensate che l’altitudine media supera i 2000 metri s.l.m. e che soltanto un 1/8 della superficie regionale sta sotto i 1.200 metri. Tutte le strade, dalla vallata centrale, alle incontaminate valli laterali, sono praticamente incassate tra i monti. Eppure, nonostante tutte le insidie legate all’orografia, nel 1800 in Valle d’Aosta c’erano più di 3000 ettari vitati, e fino agli anni ’90 del secolo scorso quasi mille. Oggi si sono ridotti a cinquecento, ma c’è una moderata tendenza a recuperare posizioni. La viticoltura si sviluppa lungo la valle della Dora Baltea, che per consuetudine si divide in tre settori geografici: Bassa Valle (con le zone Donnas e Arnad-Montjovet), Centro Valle (Chambave, Nus, Torrette) e Alta Valle (Blanc de Morgex et de La Salle). Si estende lungo le pendici pedemontane che vanno da Pont Saint-Martin a Morgex, privilegiando le esposizioni più solatie che si trovano prevalentemente sulla sinistra orografica del fiume (o versante Adret), anche se non mancano – specialmente nel settore centrale, dove la valle è più ampia – parcelle di vigna anche sul lato opposto (versante Envers).
Il clima, nella fascia vitata, è temperato-continentale, con temperature annuali che oscillano tra i 10 e i 14 gradi centigradi e con escursioni nette tra i mesi più freddi (-1 fino a 3 gradi centigradi), ed i mesi più caldi (20 gradi centigradi).
Le precipitazioni sono limitate (nella valle centrale stanno decisamente sotto i 500 mm annui, salgono a 600 mm proseguendo verso ovest e sopra i 700 in bassa valle), l’umidità è bassa, la nuvolosità rara e, per conseguenza, la luminosità decisamente elevata.
I suoli, di origine morenico-alluvionale, sono prevalentemente sabbiosi, raramente sabbioso-argillosi, mediamente calcarei, quasi mai acidi (tranne nella zona della basse Valle). Le forme di allevamento più utilizzate sono tre: la pergola (più alta e tradizionale in Bassa Valle e molto più bassa del solito in Alta Valle), l’alberello a palo singolo a Chambave e la spalliera con potatura a guyot nel resto del Centro Valle.
La superficie ampelografica della bassa valle risente dell’influsso piemontese: innanzitutto il nebbiolo (che oltretutto trova altitudini più dolci e collinari rispetto al resto della valle), poi freisa e dolcetto.
Non mancano alcuni vitigni migliorativi (su tutti fumin e merlot), ma la loro presenza è davvero sporadica. La media valle, più alta ma meno ripida della precedente (va da Saint Vincent alle porte di Arvier), negli ultimi anni ha visto crescere il proprio patrimonio varietale. Fermo restando i vitigni tradizionali (il moscato ed il pinot grigio o malvoisie per i bianchi, petit rouge e vien de Nus per i rossi), sono cresciute le percentuali del fumin, del mayolet, del cornalin e di una flotta di vitigni internazionali: chardonnay, muller Thurgau, petite arvine tra i bianchi; pinot nero, gamay, syrah tra i rossi. A parte i pochi ettari vitati di Arvier (per la produzione dell’Enfer) coltivati prevalentemente a petit rouge, il resto dell’alta valle, rimane invece legata al bianco prié, l’unica varietà capace di dare buoni risultati in un contesto che, per altitudine media, orografia e clima, è tanto affascinante quanto selettiva.
A spasso tra vini e produttori
Non sono vini convenzionali quelli valdostani. Come già detto in apertura non smarriscono mai la strada di casa e riescono sempre a memorizzare – e trasmettere – il messaggio del proprio terroir. Prendi i nebbioli della bassa valle, sia a Donnas che nella zona di Arnard-Montjovet: appaiono quasi trasfigurati rispetto a quelli sudpiemontesi, il tannino è sottile, i profumi rarefatti, l’acidità infiltrante, le sfumature minerali sempre sottolineate. Per entrarci in confidenza devi stargli dietro, e soprattutto, bere le cose migliori. Non perdere dunque il Donnas Vielles Vignes 2003 della Cave Cooperative de Donnas, nè il Valle d’Aosta Arnad-Montjovet Supérieur 2004 de La Kiuwa.
Dall’altra parte della Dora, nel settore più occidentale della valle viticola (alta valle), primeggia il raro Priè Blanc. Meno di trenta ettari di vecchie vigne coltivate su piede franco e allevate a pergola bassa, ad altitudini estreme (tra i 900 e i 1200 metri s.l.m.) e su suoli sciolti. Si ottengono bianchi essenziali, qualche volta troppo ruvidi e asciuganti per via di un’acidità feroce, ma che al meglio è la quintessenza di un bianco nordico: mineralità, elasticità, succosità, originalità. Non perdetevi le migliori annate del Blanc de Morgex et de La Salle Rayon, vino di punta della Cave du Vin Blanc de Morgex et de La Salle (2003 su tutti, poi 2004 e 2006) e quelle di Marziano Vevey, piccolo vignaiolo che produce solo seimila bottiglie di un Blanc de Morgex squisito e godibile (2004, 2006 e 2005 in ordine di preferenza), probabilmente uno dei più buoni della denominazione.
Lungo la media valle, l’orografia si fa meno proibitiva, le buone esposizioni aumentano – tant’è che si coltiva generosamennte anche sulla destra orografica del fiume, altrove più chiuso e quasi mai vitato – e la piattaforma varietale si fa più ricca e articolata. Tra Chambave e Nus il moscato diventa protagonista (seguito a ruota da malvoisie, vien de nus, petit rouge e fumin). La versione secca è quasi alsaziana nell’espressione, un bel vino da aperitivo, misuratamente varietale, vivo, quasi sorprendente nel dettaglio aromatico e nelle sottolineature minerali. Quella passita nelle annate migliori è dolce ma non dolcissima, profuma di pesca e albicocche, è alcolica ma mai pesante, ti godi i suoi cambi di passo, la sua pasta, la sua impareggiabile persistenza. L’azienda di riferimento qui è La Crotta di Vegneron, una cooperativa che riesce a sviluppare numeri importanti (320.000 bottiglie non sono poche in questa regione) senza perdere di vista la cura dei particolari. Se poi siete curiosi e non vi accontentate del “dejà vu“, allora cercate le poche bottiglie prodotte in zona da due aziende microscopiche: Les Granges di Nus (semplicemente deliziosa la sua Nus Malvoisie 2006) e La Vrille di Verrayes dove Hervè Deguillame produce un Moscato di Chambave secco – oggi trovi ancora un pò di 2006 – buono da leccarsi i baffi. Nella vasta zona del Torrette diventa assoluto protagonista il petit rouge, il vitigno più diffuso di tutta la regione. Dona rossi caratteriali, selvatici, pungenti, dai tratti spiccatamente montanari. In genere nel Torrette viene aiutato dal vigoroso Fumin (tannico, colorato, ruvido) e dallo speziato Cornalin, e qualche volta pure dal morbido e gradevole Mayolet. Numerosi i bravi produttori: Giorgio Anselmet (Maison Anselmet), Andrea Barmaz (Di Barrò), Maurizio Fiorano (Chateau Feuillet), Didier Gerbelle, i fratelli Grosjean, Michel Vallet (Feudo di San Maurizio), la Cave des Onze Communes.
In questo settore possono essere eccellenti anche alcuni bianchi prodotti a partire da varietà internazionali (meno personali sono i rossi): lo Stephanié 2006 di Maison Anselmet è un traminer aromatico di bella spezia, spesso, profondo, costruito con ambizione, ma senza eccessi dimostrativi; il Pinot Gris 2006 di Marco Martin (Lo Triolet) dona grande dignità ad un uva spesso interpretata con leggerezza e mediocrità; lo Chardonnay Frissonière Cuvée Bois (le annate più grandi: 2001, 1999 e 2003) di Les Cretes è il più borgognone tra i bianchi italiani, lussuoso e rifinito come pochi altri chardonnay nel nostro Paese; la Petite Arvine Vigne Champorette dello stesso produttore (2004 e 2006 sono al top), se la gioca con i più grandi vini del Vallese, culla originaria della varietà.
Ma non perdetevi pure una serie di gustose divagazioni sui vitigni minori: il Mayolet 2006 di Feudo di San Maurizio, il Fumin 2004 dei Fratelli Grosjean, la Premetta 2006 dell’Institut Agricole Regional, il Cornalin 2005 di La Vrille.
Breve lettura ai vitigni autoctoni vinificati in purezza
Prié Blanc
Ovvero l’unico bianco autoctono della Valle, e tra tutti, il più discontinuo ed il meno catalogabile. In gioventù quasi sempre tagliente, nelle annate più complicate perfino evanescente, fin troppo gracile, inconsistente. Di gradazione alcolica limitata, non gli fanno svolgere la malolattica e può capitare ancora oggi che la faccia in bottiglia con tutte le conseguenze del caso. Ma nelle annate migliori può essere sorprendete, a patto che lo si lasci in bottiglia per qualche mese: perderà un po’ della carbonica giovanile, saprà arricchirsi di sfumature e concedersi con maggiore distensione. Al meglio, può ricordare alcuni Riesling tedeschi, ma senza zuccheri residui (o quasi), con minore centralità, più vegetale e meno maturo nel frutto. I caratteri odorosi più evidenti: florealità delicata, nocciola tostata, agrumi, erbe aromatiche, ed una mineralità che ricorda la roccia umida. Ventisei ettari vitati, tutti coltivati sui suoli morenici di Morgex e morenico-alluvionali di La Salle. Decisamente “non convenzionale”.
Premetta
Ancora assai poco coltivata (molto meno di un ettaro complessivo, tutto nella Valle centrale), è stata salvata dall’estinzione grazie al lavoro di recupero dell’Institur Agricole Regionale. Pare sia una mutazione genetica del Prié Blanc. Fornisce dei vini pallidi, di fatto dei rosati naturali (addirittura più scarichi di una Schiava), quasi impalpabili al palato, ma dotati di una sapidità davvero fuori dal comune. Caratteriale.
Mayolet
Coltivato lungo tutta la Valle centrale della Dora, ma per il momento in modo confidenziale (meno di tre ettari complessivi), se vinificato in purezza dona vini di buona morbidezza, di bel colore, dal carattere speziato evidente, di misurata acidità. Nei casi migliori mostra una polpa elastica, copertura e slancio. Vitigno precoce, ama stare in alto per evitare maturazioni troppo anticipate che lo renderebbero molle, inefficace. Potrebbe fare comodo all’irruente personalità tannica del Fumin. Conciliante.
Cornalin
Tra le tante varietà minori della regione, sembra il più dotato dal punto di vista enologico. Per alcuni, è un vitigno del Vallese esportato in Valle d’Aosta (dove si chiama Humagne Rouge), per altri è insidacabilmente autoctono. Fatto sta che nel giro di poche vendemmie si è guadagnato la stima dei vignaioli valdostani che lo stanno piantando un po’ in tutta la regione (al momento meno di 3 ettari, ma il dato è in crescita). Visto che non sono pochi i vini prodotti in purezza, azzardo una breve descrizione generale: frutti rossi in evidenza, lievi sensazioni vegetali (che si fanno più sottolineate e rustiche nei vini meno riusciti), tatto meno morbido del Mayolet, e trama tannica più discreta di quella del Fumin, ma non per questo meno incisiva. Tra gli “outsider” sembra il più “autosufficiente”. Promettente.
Fumin
È un vitigno ostico il Fumin, per certi versi poco montanaro. Tra tutti gli autoctoni valdostani è il rappresentativo, e anche il più vistoso dal punto di vista espressivo (per colore e acidità ricorda un po’ la Mondeuse della Savoia, ma è molto meno profumato): gran fisico, buone potenzialità “internazionali”, ma non facilissimo da interpretare. Se estrai troppo diventa rigido e fenolico, perde apertura aromatica, e non dialoga (avete presente qualche Petit Verdot in purezza?) e se non lo spingi nelle maturazioni ottieni dei vini verdi, rustici, che sanno di “patata”, per nulla espressivi. Forse la sua morte è in uvaggio (col Petit rouge ed il Mayolet per esempio), anche se quando tutto fila liscio e nelle mani giuste, dona i rossi più profondi della regione. Ma lasciatelo maturare un po’: il naso virerà su toni animali (pelle, cuoio), di sandalo, di sottobosco, tannini e acidità riusciranno a distendersi, e lo sviluppo ne guadagnerà certamente. Quasi dodici ettari vitati lungo tutta la Valle centrale. Selettivo.
Petit Rouge
E’ il vitigno più coltivato della regione (più di settanta ettari). È protagonista assoluto nelle zone del Torrette e dell’Enfer d’Arvier, ma è la varietà di riferimento anche nei rossi di Chambave e di Nus. A dispetto della sua omogenea distribuzione (è assente solo in bassa Valle), non è così frequente ritrovarlo vinificato in purezza, anche se, è bene ricordarlo, molti dei Torrette in commercio sono prodotti con una percentuale altissima di questo vitigno(dal 70 al 100%). I più riusciti sono quasi pungenti nel frutto, un po’ selvatici, con la tipica “speziatura valdostana” e quel carattere tipicamente montanaro che spesso si traduce in profumi un po’ “freddi” e rocciosi. Quando interpretato senza la necessaria attenzione è un vino senza “pieghe”, dal frutto semplice, privo dei giusti rilievi. Al palato non è tannico come il Fumin, rispetto al quale è tuttavia più agile, elastico. È molto diverso anche rispetto al Cornalin ed al Mayolet (con i quali è spesso assemblato per la produzione del Torrette): meno speziato e tannico del primo, più acido, virbrante, minerale del secondo. I migliori si fanno ricordare anche per un finale quasi sapido-metallico, senza con questo arrivare ai livelli “salini” della Premetta. Divertente.