Nell’alfabeto del vino ogni lettera ha un preciso riferimento. Se la B si divide tra Barolo, Borgogna e Bordeaux, sulla lettera Y, non ci sono dubbi. L’associazione più ovvia, ma al tempo stesso più legittima, è quella che rimanda a Yquem. Un mito con classica dotazione aristocratica con tanto di stemma e un castello dall’estetica poco offensiva, qui niente merli e ponte levatoio, ma molto difensiva rispetto al blasone portato in dote dalla storia. Quella dei libri ha portato qui, in veste di proprietari, due re (Francia e Inghilterra), oltre a una nobiltà ben assortita. Più a lungo di altri, sempre da padroni di casa, i Lur Saluces. Famiglia nobile ma non immobile, come testimonia il fatto che Yquem, sotto di loro, acquisisce prestigio ed ettari, gli stessi sui cui vengono per altro svolti i primi esperimenti relativi alla raccolta delle uve, da qui in poi mai più in un’unica soluzione, ma in più passaggi.
Dopo la classificazione del 1855, Yquem si becca la patente di Premier Cru Supérieur. Un riconoscimento meritato, ma anche ribadito a suon di vendemmie. L’ultima dei Lur Saluces si compie alla fine degli anni ’90, quando il castello cambia proprietario.
Come in tutte le favole non manca l’happy ending, grazie alla nuova proprietà, gruppo LVMH, che ha deciso – bravi! – di non fare punto e capo, ma di continuare nel solco della tradizione. Una fetta di eccellenza, di storia, ma anche di geografia. Una delle peculiarità che fanno di Yquem, Yquem, si deve all’appassimento delle uve, magari condito con eventuale presenza di muffa nobile sugli acini. Questo aspetto è in gran parte dovuto alla vicina presenza di due fiumi: la Garonna e un suo piccolo affluente, chiamato Ciron. Acqua per fare vino? Certo, visto che proprio i fiumi contribuiscono a formare, durante le fredde mattine autunnali, quell’umidità che rappresenta un fattore decisivo per la formazione della muffa nobile (botryte), un agente che condensa il sapore, rendendo il grappolo scuro, scarno, solo in apparenza ‘scrauso’. Un brutto ma buono che determina, a seconda delle quantità in cui è presente, il timbro gustativo dell’annata.Dopo le variabili passiamo alle costanti. Quelle di Yquem sono composte in primo luogo dai terreni: un misto di argilla, calcare e, in superficie, sassi (in totale poco più di 110 ha). I vitigni? In vigna, ma poi spesso anche nel blend in bottiglia, l’80% di Sémillon (bacca bianca dalla buccia sottile, fattore che agevola l’appassimento e la muffa nobile) è completato esclusivamente da Sauvignon, responsabile dell’equilibrio gustativo grazie alla sua caratteristica acidità (in altre aziende si utilizzano anche piccole percentuali di Muscadelle, uva che dona al vino sensazioni che ricordano la frutta tropicale). Dalla vigna, massima pretesa sia in fatto di raccolto – siamo nell’ordine di un bicchiere di Sauternes per pianta – sia rispetto alla qualità dello stesso.
Per ottenere questi risultati bisogna essere duri e puri, scartando non tanti gli immaturi, ma addirittura i non perfetti e vendemmiando, in annate così così, passando tra i filari anche una dozzina di volte. In cantina perciò arriva poco, ma, di sicuro, più che buono. La vinificazione avviene in barrique nuove, utilizzate anche per l’affinamento, oggi assestato su poco meno di 3 anni. Il curriculum di Yquem va letto, in rapporto alle annate, con un occhio alla glicemia. Diciamo, in generale e con molta approssimazione, che da anni – complicità del global warming? – la quota di dolcezza di questo vino si aggira tra i 120 e i 140 grammi zucchero per litro. Tuttavia la morbidezza, nel caso di Yquem, va sempre letta con il palato e contestualizzata con aspetti come struttura, bilanciamento acido e tanto altro.
Il blasone di Yquem è anche alimentato dalle rinunce. Da quelle relative ai grappoli scartati, a quelle riferite invece alle annate non prodotte, perché non aderenti all’eccellenza che quest’azienda pretende sempre di esprimere. Niente Yquem quindi nel 2012 come nel 1992, 1974, 1972, 1964, 1952, 1951, 1930, 1915 e 1910. La Y di Yquem dà anche il nome al vino secco dell’azienda. Roba tosta far meglio della versione dolce! Tuttavia l’ygrec, per scriverla come lo si pronuncia, mantiene il timbro dell’illustre parente, ma lo attualizza, per certi versi lo declina, ma, di certo, non lo scimmiotta. L’ Y secco sbertuccia invece tanti Bordeaux blanc sec prodotti magari a Pessac-Leognan, altra terra promessa per i Bordeaux bianchi. Per realizzarlo solo grappoli in parte attaccati da botryte e un uvaggio che ribalta quello del Sauternes, dando la precedenza (80%) al Sauvignon Blanc. Qui la scelta è di tenere alta l’acidità per far volare la beva. Allora no malolattica e legno solo per un terzo nuovo in affinamento. Yquem insomma tanto in versione morbida che in quella secca è un vino che non teme le mode, i tempi, compreso quello da trascorrere in bottiglia, valore cronologico che ce lo restituisce sempre diverso e sempre unico.