Anche la più ampia regione del nord-est ha spiazzato per la sua eclatante ricchezza in termini di biodiversità ampelografica. Dalla rarissima Boschera della Marca Trevigiana alla speziata Dindarella veronese, passando per la dolce Vespaiola di Breganza. Senza dimenticare la preziosa, veneziana Dorona; le bellunesi Turca e Pavana; la mordace Pinella dei Colli Euganuei, la poderosa Oseleta della Vapolicella e molte altre ancora.
Anche il Veneto offre un incredibile ventaglio di vitigni autoctoni che hanno rasentato l’estinzione, per poi essere riscoperti e rilanciati a beneficio della biodiversità e della storia viticola della regione.
Necessaria dunque una selezione draconiana, basata su alcuni semplici principi. In primis abbiamo scelto di parlare solo di quelle uve che presentano effettive vinificazioni in purezza; in seconda battuta sono stati escluse le varietà più diffuse, ma realmente a rischio di scomparsa; altresì non sono stati prese in considerazione le cultivar frutto di incroci operati dall’uomo; infine non sono stati citate quelle bacche di dubbia autoctonia o diffuse anche in altre regioni. Il tutto, sempre e comunque, senza la pretesa di esaustività, anche perché il mondo dell’ampelografia è un cantiere sempre aperto!
Bianchetta Trevigiana severa da ferma, più beverina con le bollicine
Nel feltrino (Belluno) veniva tradizionalmente vinificata in tini di legno, con una macerazione sulle bucce di 2-3 giorni e un affinamento in piccole botti di rovere; pratiche che originavano un vino carico di colore, molto acido, di buona longevità, ma per contro poco beverino e alquanto scontroso. Per migliorarne la beva “nel 2005 mi venne l’idea di provare a vinificare la Bianchetta per ottenere un vino-base da spumantizzare poi con il metodo Charmat, vista la sua naturale freschezza, in versione Extra Dry”, racconta Marco De Bacco dell’omonima cantina di Seren del Grappa (Belluno). “Subito rimasi stupito dai risultati: una bollicina da uve autoctone del tutto originale e al di fuori di qualsiasi stereotipo”.
Nel corso degli anni Marco, con la sorella Valentina, ha cercato poi di migliorare ulteriormente il prodotto, selezionando solo i cloni più rispondenti alla Bianchetta del territorio, privilegiando forme di allevamento poco produttive, e in cantina operando con la minor invasività possibile, così da mantenere intatti i tratti varietali dell’uva di origine. Va detto che si tratta di una cultivar molto produttiva e sensibile alle muffe, pur resistendo a oidio e peronospora; pertanto occorrono terreni poveri, potature severe, diradamenti, posizioni ben esposte e ventilate e adeguati defogliamenti. “Da qualche tempo ne produciamo anche una versione ferma, fermentata in barrique, per la quale scegliamo solo i grappoli migliori dei vigneti più vecchi e maggiormente esposti, per un bianco complesso e di carattere”.
L’Extra Dry prodotto da De Bacco, Saca il suo nome, frutto di un Martinotti mediamente lungo con continui bâtonnage, offre gradevoli ricordi di frutta tropicale, erbe mediterranee e spezie; in bocca la freschezza acida e la sapidità sono ben bilanciate da un leggero residuo zuccherino.
Il Boschera grazie al clima è tornato a splendere
“Il Boschera – spiega Alessandro Winkler di Vittorio Veneto (Treviso) – è un vitigno antico, preesistente all’arrivo della Glera dall’Istria, coltivato sulle colline trevigiane da secoli. Avendo maturazione tardiva e produttività inferiore al Prosecco, è stato via via abbandonato e confinato alla produzione del Torchiato di Fregona. Per fortuna i mutamenti climatici degli ultimi anni stanno giocando a suo favore, promuovendone la maturazione già a metà settembre”. Secondo Valoritalia esistono solo 6 ha di Boschera. Winkler ha deciso di piantare 1.000 barbatelle da selezione massale appositamente prodotte dai Vivai Cooperativi di Rauscedo, credendo nel vitigno, nella biodiversità e nel recupero delle tradizioni ampelografiche.
Concedendosi una “licenza poetica” rispetto all’antico impiego del Boschera, il nostro ha preferito optare per una sua vinificazione in purezza. Il Colli Trevigiani Igt Boschera Frizzante prevede il seguente protocollo enologico: alla prima fermentazione spontanea autunnale, con blando controllo delle temperature, segue un periodo invernale di affinamento in vasca con tre travasi, con una minima aggiunta di solforosa. In primavera il vino viene imbottigliato con tappo a corona, dove avviene la rifermentazione spontanea contestualmente ai primi tepori primaverili. “Questo processo naturale, impiegato tradizionalmente dalle nostre parti (il famoso “Col Fondo”), dà un vino secco che evolve nel tempo assumendo una complessità organolettica quasi pari a un metodo classico”.
Dindarella, poca resa tanta spezia
Si tratta di un vitigno rosso veronese dalle caratteristiche molto particolari, a partire da una produttività assai poco costante e sempre bassa: per questo è caduto nel dimenticatoio per molti anni, quando obiettivo primario era la quantità. Solo per puro caso la cantina Aldegheri di Sant’Ambrogio di Valpolicella si è imbattuta in questa varietà, conferita fortuitamente da uno storico collaboratore dell’azienda.
Compresone il potenziale, Aldegheri ha subito deciso di vinificarla separatamente. Dagli acini piccoli, adatti all’appassimento, “nella prima prova di vinificazione si è deciso di impiegarne una metà fresca e il resto sottoposto a un moderato appassimento di due mesi. Scelta azzeccata, perché questo mix ha condotto subito a un vino particolarmente accattivante, poi denominato Veronese Igt Dindarella”, racconta Paola Aldegheri.
Un nettare dalle leggere note di ciliegia e amarene, e dai decisi profumi speziati di zenzero, pepe verde, cannella e noce moscata; il palato riprende con coerenza le sensazioni olfattive, in un quadro di grande armonia, dove l’intensità gusto-olfattiva ben si integra con una texture tannica serrata ma dolce e vellutata, senza mai sconfinare in una eccessiva robustezza.
“Noi Aldegheri – conclude Paola – ci proponiamo di ricercare anche altre interpretazioni della Dindarella, alla ricerca della sua interpretazione più tradizionale; nel mentre stiamo selezionando altre realtà interessate al rilancio di questa piccola perla enoica”.
Dorona, perla enoica amata dai Dogi
“Accompagnando dei clienti a Torcello, notai una vecchia vigna in una casa privata adiacente la cattedrale di Santa Maria Assunta. Riuscii a convincere la proprietaria a mandarmi un po’ di quell’uva quando fosse stata matura. Le cassette arrivarono piene di bellissimi grappoli: era la famosa Dorona, già apprezzata dai Dogi e poi scomparsa”, così Gianluca Bisol, dell’omonima azienda di Valdobbiadene.
La Dorona di Venezia è un’uva dorata dalla buccia spessa e dalla foglia particolare, capace di regalare un nettare di nerbo, longevo ed elegante. Un tesoro nascosto nelle piccole proprietà dei contadini, nelle storie e nelle tradizioni isolane, che stava per essere perduto. Anni di ricerche frutto dell’amore della famiglia Bisol per Venezia, uniti alla competenza tecnica di Desiderio Bisol e del winemaker Roberto Cipresso, hanno riportato alla vita questo prezioso vitigno nella tenuta Venissa. Tenuta che dimora a Mazzorbo, isola che assieme a Torcello e Burano fa parte della Venezia Nativa, e che rappresenta uno degli ultimi esempi di vigna murata, estesa su oltre 2 ha.
Un vigneto speciale, in gran parte a piede franco, in cui le viti affondano le radici in un terreno ricco di limo, argilla e microrganismi, figlio di una viticoltura eroica messa a dura prova dal fenomeno dell’acqua alta. Dal recupero dell’uva Dorona nasce Venissa, un vino raro e storico, frutto di un solo ettaro vitato e dalla limitatissima produzione.
Tutto il processo di vinificazione punta a trasportare nel calice la particolare identitarietà territoriale propria di questa perla enoica.
Marzemina Bianca, eccelle frizzante o come vendemmia tardiva
Conosciuto anche come Sciampagna, è un vitigno veneto originariamente coltivato nella fascia collinare compresa tra la provincia di Pordenone e la zona di Breganze (Vicenza), anche se pare abbia lontane origini borgognone e sia giunto in Triveneto attraverso la Germania e poi la Svizzera. Alcune sue tracce sono state rinvenute anche sul Lago di Como in Oltrepò Pavese, a Marostica, Bassano del Grappa e in Trentino, dove pare essere stata un’uva da tavola. Alcuni lo ritengono molto vicino allo Chasselas Dorato, mentre non è una mutazione in bianco del ben più noto Marzemino.
Oggi, pur in modo limitato, lo si trova sui colli trevigiani, padovani e vicentini, con tracce sui Colli Euganei, nel veneziano e nel bresciano. Può concorrere in uvaggio nel Torchiato di Fregona e nel Torcolato. Dal grappolo allungato e compatto, alato, presenta grossi acini con buccia spessa, pruinosa, dorata; la maturazione è precoce. I vini che ne derivano sono finemente fruttati, dal gusto pieno, sapido, con finale gradevolmente amaricante; la Marzemina Bianca si presta bene anche alla produzione di vini frizzanti e a vendemmie tardive.
Tra i principali interpreti di questa varietà, figura oggi l’azienda Firmino Miotti di Breganze. Racconta Franca Miotti, figlia di patron Firmino: “La Marzemina Bianca è varietà veneta di antica coltivazione le cui notizie storiche certe risalgono al 1679, pur se quasi abbandonata dopo l’avvento della fillossera. Noi Miotti siamo stati tra i primi a riscoprirla, vinificandola in purezza. Facciamo in modo che il vino completi parte della sua fermentazione in bottiglia e sur lies, così da ottenerne una versione frizzante, che non contiene solfiti aggiunti.
Il nostro Sampagna Bianco Frizzante profuma intensamente di glicini e giglio; in bocca è molto morbido, sapido e fruttato, un ottimo vino – molto beverino – da antipasti e crostacei; lo si può consumare torbido o facendolo decantare per separarlo dai lieviti in sospensione”.
Molinara, fragile e salata, dopo l’oblio ora il suo recupero
Diffusa un po’ in tutto il Veronese, il suo nome deriva dal dialettale mulinare (da mulino), per via dell’abbondante pruina che ricopre la buccia dei suoi acini, da farli sembrare spolverati di farina. Definita anche Ua Salà (uva salata) per il peculiare equilibrio che, senza fare esaltare acidità e tannini, finisce per sottolinearne la sapidità; la sua fragranza e trasparenza di colore, nel tempo hanno finito per costituirne un limite, sin quasi alla sua quasi completa eliminazione dagli uvaggi di Bardolino, Valpolicella e soprattutto Amarone, a vantaggio di bacche foriere di nettari dalla maggior concentrazione.
Per fortuna in questi ultimi anni si assiste a un ritorno di fiamma verso vini più beverini e non per forza troppo robusti e profondi, e la Molinara vitata in collina (è qui che dà il meglio di sé), sta gradualmente tornando ad avere un suo ruolo. Di maturazione medio-tardiva, favorita da forme di allevamento espanse come la pergola veronese, è rarissimamente vinificata in purezza: una delle poche eccezioni è costituita dall’Igt Veronese Molinara prodotta dall’azienda Boscaini Carlo di Sant’Ambrogio di Valpolicella (Verona).
Spiega Carlo: “Abbiamo cominciato a produrre questo vino 9 anni fa, pur conoscendo i limiti di mercato dei vini che derivano da tale varietà: poco colore, scarsa struttura, generosi di acidità; consci di andare controcorrente, in un periodo in cui molti nostri colleghi la stavano pressoché eliminando”. Ma ecco il perché di tale scelta: “Nei vigneti nuovi non piantiamo più la Molinara, ma in quelli vecchi (di 40-60 anni) ne abbiamo ancora: abbiamo così deciso, io e mio fratello Mario, di cimentarci nella produzione di questo particolare nettare.
Produrre vini rossi di struttura non è tecnicamente complicato; ben più difficile è produrre un vino rosato e mantenerne i colori, i profumi, la freschezza; un prodotto che deve essere pronto per la primavera, dalla fermentazione pilotata che deve condurre a una desiderata e costante colorazione, ma anche capace di mantenersi integro per qualche anno.
Questa è stata la sfida che abbiamo voluto raccogliere, e che crediamo di aver vinto. La produzione è ovviamente molto limitata, solo 1.000 bottiglie, anche perché il mercato non sempre comprende questo nostro prodotto”.
Oseleta, da desaparecida a protagonista
L’Oseleta è un’antica varietà autoctona veronese abbandonata per la sua poca resa e riscoperta da Masi negli anni ‘80, quando Sandro Boscaini ebbe la fortuna di assaggiare da un piccolo produttore di Pescantina (Valpolicella meridionale) un rosso dell’importanza dell’Amarone che tanto lo impressionò. Il contadino gli disse di produrne poche centinaia di bottiglie da quattro viti centenarie a piede franco, d’identità ignota ma originali per la piccola dimensione dei grappoli, per la loro maturazione tardiva, per una produttività ridotta, per l’alta acidità e tannicità, capaci di generare vini dal colore impenetrabile.
Boscaini sottopose quest’uva all’Istituto Sperimentale per la Viticoltura di Conegliano Veneto, che venne individuata come l’antica Oseleta, ritenuta estinta. Conscio della possibilità di recuperare con questo vitigno un tassello dell’antico patrimonio viticolo veneto, Sandro ottenne nel 1985 la possibilità di impiantare i primi 2 ettari di Oseleta, pur se solo nel 2000 essa venne reinserita nel catalogo dei Vitigni d’Italia, e nel 2003 introdotta nei disciplinari di Valpolicella e Amarone.
Oggi questa cultivar rappresenta per l’enologia veronese e persino internazionale un interessante nuovo elemento di biodiversità. Vari i vini di Masi che hanno beneficiato dell’aggiunta di tale uva, ma è con il Veronese Igt Osar – creato nel 1995 e dal 2000 frutto di Oseleta in purezza – che quest’ultima ha avuto la possibilità di esprimersi in tutta la sua complessità.
Pavana vino che sa di storia e di montagna
Claudio Polesana, patron di Terre dei Gaia di Feltre (Belluno) racconta: “Anni fa ero responsabile commerciale dell’azienda di famiglia, ma poi ho sentito il richiamo alle mie origini e il desiderio di apprezzare i ritmi lenti della natura. Così ho deciso di acquistare un piccolo vigneto nella zona storica della viticoltura feltrina, a Frassenè di Fonzaso, e ho compreso che la vite esercitava in me un attrazione profonda, un legame ancestrale coi miei avi. Oggi siamo una piccola realtà agricola in conversione al biologico e produciamo 15mila bottiglie. Impieghiamo vitigni autoctoni vinificati in purezza, con lo scopo di infondere nei nostri vini il profumo della montagna e l’amore per la nostra terra”.
Tra le varietà coltivate da Claudio v’è la Pavana, cultivar indigena che oggi si ritrova solo nel feltrino e in Valsugana. Il suo grappolo è medio-grande, talvolta alato, mediamente compatto, con acini dalla buccia blu-violacea, molto pruinosa, spessa e consistente. La foglia può essere trilobata o pentalobata, di colore verde scuro; i tralci sono lunghi, con gemme coniche ben evidenti. Predilige terreni scistosi, meglio se fortemente calcarei come i conoidi che compongono la valle di Frassenè di Fonzaso, e resiste bene alla peronospora e all’oidio, temendo però il marciume. La si vendemmia verso la fine della prima decade di ottobre.
Da questa varietà Terre di Gaia produce un nettare chiamato Crode Rosse, un Veneto Igt rubino intenso, strutturato ma dal profumo delicato di piccoli frutti rossi e rosa canina; in bocca è gradevolmente beverino, elegante ed equilibrato.
Pinella: da anni obliata oggi è tornata. Mordace
Diego Bonato della cantina Reassi di Carbonara di Rovolon (Padova) è un appassionato del recupero di varietà “minori” a rischio di estinzione; tra queste la Pinella, presente solo sui Colli Euganei e in Slovenia, impiegata storicamente per il Colli Euganei Doc Bianco in assemblaggio con altre bacche. Per via della compattezza del sui grappolo e della sottigliezza delle bucce, se non gode di un microclima ottimale è molto suscettibile alle muffe: per questo negli anni ‘70 tanti viticoltori l’avevano espiantata. Per contro dà un vino delicato, dai profumi leggermente aromatici, balsamici e floreali, con palato di buona acidità e finale mandorlato amaro, caratteristiche che ben si bilanciano con un leggero residuo zuccherino.
Spiega Bonato: “La sua marcata acidità rende la Pinella adatta alla versione frizzante; personalmente l’ho sperimentata anche in versione metodo classico con buoni risultati. Le uve, raccolte nella seconda settimana di settembre, provengono da un vigneto ultra centenario – di 4.500 piante/ha, allevato a Guyot, dalla resa di soli 60 quintali di uva/ha – innestato a gemma sul 420A, impiantato su un poggio ventilato a 120 m slm, esposto a nord e coltivato a girapoggio, con suolo argillo-limoso: un terroir ottimale per questa varietà. Dalle nostre piante abbiamo effettuato una selezione massale e selezionati i rari cloni di Pinella oggi esistenti”.
Con questi frutti l’azienda Reassi produce 4.000 bottiglie di Colli Euganei Doc Pinello Frizzante Antichi Reassi, con la tecnica dello Charmat lungo associata a periodici bâtonnage.
Turca uva misteriosa e pressoché sconosciuta
Anche la Turca è una di quelle varietà da sempre poco diffuse e snobbata dagli ampelografi. Il suo nome non si riferisce a una presunta origine geografica, ma si rifà al dialetto trentino, dove la parola “turco” significa duro, pesante; tratti che a volte assumono i vini ottenuti da quest’uva.
La sua diffusione è pressoché limitata al bellunese, a ovest di Feltre, e più limitatamente in Valsugana. Ha grappolo piccolo, acini con buccia molto pruinosa e di media consistenza, di colore blu-nerastro; matura a metà di settembre. Il prodotto che si ottiene dalla vinificazione della Turca in purezza è rubino intenso, dai sentori eleganti di mora; al palato mostra un notevole corpo, con tannini evidenti, talvolta quasi astringenti.
Tra i rari produttori che la impiegano in purezza, figura il Conte Giordano Emo Capodilista, patron dell’omonima azienda agricola di Selvazzano Dentro (Padova), che da alcuni anni si sta dedicando alla riscoperta degli antichi vitigni autoctoni veneti.
Prodotto in limitatissime quantità, il Turca Rosso lo si ottiene da uve di vigne della tenuta allevate a cordone libero e Guyot, su suoli di medio impasto con affioramenti trachitici e ardesia, esposte a sud-ovest e dense 4.300 ceppi/ha; dopo un affinamento in vasche di acciaio, matura 4 mesi in vetro prima della commercializzazione. Si caratterizza per aromi pepati e di frutta rossa, con palato fresco e minerale, sapido e aromatico.
Verdiso da complementare a intrigante solista
La zona di produzione di questo vitigno autoctono è ubicata tra le colline di Conegliano e Valdobbiadene. Presenta un grappolo piuttosto compatto di medie dimensioni; gli acini sono abbastanza grandi, dalla buccia pruinosa, sottile e poco consistente, verde-giallognola leggermente puntinata; per via della sua fresca acidità e sapidità, è quasi sempre impiegato come “condimento” della Glera per la produzione del Conegliano Valdobbiadene Docg.
Nonostante sia considerata essenzialmente come cultivar complementare, vi sono alcune aziende, poche invero, che la propongono in purezza, promuovendone la sopravvivenza e la sua capacità di esprimersi anche da solista; addirittura esiste una rassegna a essa dedicata: “è Verdiso”, che svolge annualmente a Combai, nel cuore della sua area di coltivazione.
Tra queste realtà, va citata Le Manzane di San Pietro di Feletto (Treviso), che ha vinto tre edizioni della citata manifestazione. Racconta patron Ernesto Balbinot: “Il nostro Colli Trevigiani Igt Verdiso si presenta paglierino scarico con riflessi verdolini; il profumo è delicato, dai ricordi di pera e agrumi; al sorso spicca per la sua tipica acidità, accompagnata da buona sapidità minerale, con un ritorno dei sentori già colti al naso, con finale piacevolmente amaricante.
Ottenere un prodotto così pulito e gradevole – continua Balbinot – è semplice: il Verdiso è un’uva difficile, matura velocemente e in modo disomogeneo, il che implica quanto meno una doppio passaggio vendemmiale.
La vinificazione è quella tradizionale, in bianco, con una fermentazione a 18 °C particolarmente lenta, sino a 20 giorni. Quando il vino è tecnicamente finito, lo lasciamo due mesi sur lies con frequente rimescolamento delle fecce nobile, per dare maggior carattere e struttura a un vino che normalmente risulterebbe poco estrattivo e di breve longevità. Noi preferiamo la versione tranquilla, pur se alcuni produttori optano per la frizzante, magari ‘col fondo’”.
Dalla Vespaiola al Torcolato… ma non solo!
La Vespaiola è un’uva di Breganze il cui nome deriva dalla sua appetibilità per le vespe. Non si sa a quale epoca risalga il suo insediamento nel vicentino, ma le prime citazioni sono del 1754, dove si parla di un “liquore sopraffino che si fabbrica a Breganze”; il che fa intuire come sia sempre stata impiegata per la produzione di vini dolci.
“Trova il suo ambiente di coltivazione ideale nei terreni collinari di origine vulcanica, su pendii ben esposti e arieggiati”, spiega Maria Vittoria Maculan, figlia di Fausto, tra i principali interpreti di questa varietà. “Con una potatura lunga esprime al meglio il suo potenziale produttivo; i grappoli sono piccoli, cilindro-conici, con ala pronunciata. A metà settembre l’uva è pronta per la raccolta; il grado zuccherino non è mai troppo elevato, e l’acidità sempre spiccata. Tradizionalmente le uve vengono lavorate in due modi: i grappoli più spargoli sono destinati all’appassimento, quelli più compatti alla produzione del vino bianco”.
Il Breganze Doc Torcolato, ossia la versione passita dolce, è sicuramente l’espressione più famosa della Vespaiola, ma con alcune accortezze enologiche si possono ottenere grandi nettari anche con l’interpretazione secca, come nel caso del Breganze Doc Vespaiolo di Maculan, da uve provenienti dalle colline vulcanico-tufacee del comprensorio: raccolta manuale, criomacerazione e iperriduzione permettono di portare nel calice aromi notevoli di frutta matura a polpa bianca, dalla banana alla pera, per un vino di grande freschezza gusto-olfattiva.
Wildbacher, arriva dalla Stiria ma Collalto lo coltiva da secoli
Si tratta di un vitigno originario della Stiria. Pur se i conti di Collalto – protagonisti della storia agraria del trevigiano dal XII secolo – già da centinaia di anni lo coltivavano, e pur se a partire dai primi del Novecento è stato introdotto nella Marca Trevigiana in modo significativo, solo nel 1980 ha ottenuto l’iscrizione al Catalogo nazionale delle varietà di viti, con la sua inclusione tra le cultivar autorizzate nella provincia di Treviso. Varietà rustica, resiste bene alle avversità climatiche e parassitarie; poco vigoroso e produttivo, si adatta bene alle potature lunghe.
I grappoli sono molto compatti, corti, cilindrici e alati. La maturazione tardiva, grazie anche alla consistenza e resistenza delle sue bucce. Se vitato in collina, permette di ottenere vini di qualità e spessore, rosso rubino intenso, dalle inebrianti ma fini note di piccoli frutti scuri, con sottili sensazioni di erbe aromatiche e officinali; al palato offre un generoso calore alcolico, una texture tannica fitta, marcata ma di buona rotondità, con lungo finale asciutto, fresco di acidità, dai ricordi di marasca sottospirito.
Le colline di Susegana (Treviso), dove dimorano le vigne della tenuta di Collalto, dalla complessa conformazione geologica: marnoso-arenaceo-argillosa, dai suoli magri e acidi, sono perfette per la coltivazione di questo esuberante vitigno. Il Colli Trevigiani Igt Wildbacher, prodotto dalla Principessa Isabella Collalto, lo si ottiene da vigne di proprietà poste sulle colline a sinistra del Piave, esposte a Sud, su suoli – nello specifico – prevalentemente argillosi, con rese per ettaro di 70 quintali di uva, vendemmiata nella prima decade di ottobre. Dopo un classico processo di vinificazione in rosso, con una macerazione di un paio di settimane e una malolattica spontanea, il suo affinamento ha luogo in botti grandi da 40 ettolitri, per circa 24 mesi.
[Questo articolo è un estratto del numero di Settembre-Ottobre 2022 de La Madia Travelfood. Leggi gli altri articoli online oppure abbonati alla rivista cartacea!]