Un progetto innovativo, cucito interamente sulla figura di Alessandro Rossi ma totalmente avulso dal personalismo e dal protagonismo che, in maniera così ingombrante, così fisica, verrebbe da dire, abita questa nostra epoca.
Perché del protagonista e ideatore di questa storia, come accadeva con le musicassette che si ascoltavano nei mangianastri negli anni ‘80, si sente solo la voce: simulacro reale, ma anche fantastico, perché fantasmatico, di un momento presente che è poi il “play” che, in questa storia, rappresenta l’estensione contemporanea di una precisa presa di posizione sull’hic e sul nunc, per dirla coi latini.
Qui e ora, insomma, sono sospesi, messi in pausa dalla volontà di premere play sullo schermo del podcast di Deep Red Stories.
Benché totalmente votata all’oggetto delle proprie storie, come nelle migliori storie, appunto, l’istanza narrante si evince qui solo analizzando criticamente la scelta di raccontare alcuni aneddoti in luogo di altri, di narrare personalità e storie che, in molti casi, han fatto la Storia, e di certo la memoria, dell’homo bibens contemporaneo.
Storie passate, per lo più, e difatti il progetto richiama alla memoria la figura del cantastorie e tempi in cui al visuale si poteva ancora sostituire il sonoro senza perdere ne’ in suggestione ne’ in verosimiglianza, ma anzi demandando alla voce del protagonista la funzione di dare forma e colore, sostanza, appunto, alle cose. Se ci pensiamo, tutta una generazione di doppiatori s’è formata con questa ambizione, e certamente la qualità del timbro vocale, simile in questo caso a quella di Luca Ward, non è affatto da sottovalutare.
A parlarci, è quello che per tutti è la nuova immagine elegante e raffinata del comunicatore in tutto e per tutto, commerciale e intellettuale.
Un manager, insomma, così appassionato da serbare in nuce, e da sempre, pure la velleità di fare divulgazione.
Una divulgazione socio-enologica, per dirla con lui, e uno stile, quello di queste Deep Red Stories, che benché serbando un approccio naturalmente didascalico non solo non vuole esser scolastico, ma rifugge anzi da qualunque pedanteria, da qualunque retorica, privilegiando un punto di vista critico, acuto, indipendente e personalissimo.
Per chi ne ha memoria, diciamo subito che il suo podcast ci ha ricordato lo stile lucido e disincantato di Jack Folla in Alcatraz: erano i primi anni 2000 quando il Dj nel braccio della morte di Diego Cugia di Sant’Orsola sentenziava su una contemporaneità che già gli ispirava momenti satirici alternati ad altri più mesti, finanche più lirici, impastati di uno stile irriverente e indipendente, benché divulgativo.
Nessuna lezione, dunque, ma solo frammenti di memoria storica enologica, condivisa e non, arrangiati in una risorsa molto audio e poco video fruibile in qualunque momento e in qualunque luogo poiché salvata nella memoria del dispositivo che la riproduce.
Come tale, Deep Red Stories è asincrona, replicabile e fruibile infinite volte, senza alcun vincolo salvo quello dell’attenzione.
Non sarà di certo difficile rimanere concentrati per i circa 10 minuti di narrazione tanto sono centrate, stimolanti e ben raccontate le storie di Alessandro Rossi.
Per non parlare, poi, dei focus orditi su argomenti gustosi come quello del famoso “giudizio di Parigi”, che comincia con una serie di indizi atti a instradare l’ascoltatore proprio su quella che, a ragione, viene considerata una delle rivoluzioni più importanti nel modo non solo di percepire, ma anche di pensare il vino stesso.
Chi di voi sa, venendo al punto, cosa successe, a Parigi, il 24 marzo 1976? Per scoprirlo, ascoltate il decimo episodio di Deep Red Stories; un episodio reso spassoso dalla licenza che Alessandro Rossi si concede di allargare lo zoom dei fatti e degli antefatti, raccontando per esempio come solo qualche settimana dopo, infatti, sarebbe nata, in California, la Apple; nello stesso anno, invece, avrebbe visto la luce Wine Spectator.
Eccolo qui il contesto storico, culturale e sociologico nel cui seno si sono generati siffatti accadimenti, perché quel giorno, a Parigi, si consumò la più importante inversione prospettica di tutti i tempi, quella che decretò il vino americano migliore del vino francese dagli stessi degustatori e giornalisti di Francia che, ignari, s’erano prestati alla degustazione alla cieca.
Ma non vogliamo anticiparvi ulteriormente perché la puntata è così succulenta da meritare, almeno, un ascolto per intero. E riesce pure nell’impresa d’esser leggera complice la fresca e stimolante regia, infarcita di siparietti musicali e di effetti sonori, di Marco Battistini, musicista, produttore e sound engineer legato a Rossi da un’amicizia antica.
Venendo al loro scopo, s’è poi tanto parlato, negli ultimi anni, di storytelling: ovvero di quelle forme di comunicazione nate in seno ai nuovi mezzi di comunicazione che, appunto, le hanno ispirate.
Ebbene, senza alcun fine di lucro quel che qui s’intende promuovere è una nuova ancorché antichissima forma di divulgazione; una cultura fondata sull’ascolto che gli appassionati tanto di vino quanto di altri appassionati di vino potranno esperire da un punto di vista più efficace, perché semplicemente più emotivo.
Tra tutti i sensi, difatti, assieme all’olfatto quello uditivo è certamente il senso più legato al mondo delle emozioni, tanto che si è dimostrato che la prima forma musicale venne abbozzata per imitare il battito del cuore e che il primo imprinting emotivo sia un ricordo di tipo uditivo: il timbro e la frequenza della voce della madre.
Richiamandosi a questo emisfero della percezione s’inserisce dunque, e in maniera originalissima oltreché efficace perché issato su elementi più funzionali da un punto di vista mnemonico, il progetto di Alessandro Rossi e Marco Battistini. Una narrazione, la loro, pensata per chi vuole esulare dal mondo delle lettere senza rinunciare all’apprendimento; fonte di aggiornamento, approfondimento e, più in generale, di conoscenza per gli amanti del vino e, per estensione, del genere umano.
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