E’ il prodotto più celebrato del momento. Ecco come cambia il camaleonte della pasticceria.
Il paradosso del cioccolato: si produce nei paesi tropicali, nella cosiddetta “cintura del cacao”, ma si consuma dove il clima è fresco, preferibilmente nella stagione invernale. I golosi di cioccolato sono costretti ad aspettare l’arrivo del freddo per sgranocchiare la loro tavoletta, consolandosi nell’attesa con il classico cono gelato. Colpa del burro di cacao, che con l’alzarsi della temperatura trasuda irrimediabilmente, ma senza conseguenze negative per il palato o per la salute del consumatore. Fra gli ultimi cibi di stagione, il cioccolato è poi diventato un elemento di rito, e non solo per Pasqua. La sua ombra sacra, già nota agli Aztechi, si stende oggi anche sul Natale, fra presepi di cioccolato, pupazzi di neve, statuine di Santa Claus e della Befana da appendere all’albero con relative sorprese. Riti che oggi sono anche minuti e quotidiani, vedi il caffè del dopopasto o il cioccolatino anti-crisi, cui ricorrono il 76% delle donne americane. Maestri di cerimonia sono i cioccolatieri, che si contrappongono fieramente alla produzione industriale. La rivoluzione della tavola, che sulla scia del vino ci ha reso sempre piú sofisticati sull’aceto, l’olio, persino sul sale, è arrivata adesso alla tavoletta, tanto che, secondo il giornalista gastronomo Luigi Cremona, “da una sottocultura, si è passati ad un’ipercultura del cioccolato”. Da peccato di gola a snobismo del gourmet, da bomba calorica e cariogena ad alimento sano e nutriente, l’immaginario del cioccolato si è profondamente trasformato. Come dice Guido Repetto, amministratore delegato della Novi: “il rapporto, per così dire, si è normalizzato. Le mamme non rimproverano piú i loro bambini per averne mangiato troppo, come facevano un tempo”. Con le sue 400 componenti, questo alimento viene oggi considerato il piú complesso dell’intero universo edibile ed è stato assolto con formula piena dei nutrizionisti e degli psicologi. Le chocolat des affligés di cui parlava Brillat Savarin ha trovato solide fondamenta scientifiche in molecole euforizzanti chiamate feniletilamina, teobromina, anandamide, oltre che nei soliti polifenoli e nelle endorfine. Mentre ci tiriamo su, i grassi del cacao abbassano il nostro colesterolo, e prima o poi qualcuno sosterrà di certo che fanno dimagrire! Paradossalmente la rivalutazione del cioccolato ha tratto manforte dalla direttiva europea del 2000, che ha consentito l’utilizzo di grassi alternativi al burro di cacao nella proporzione massima del 5%. La maggior parte delle industrie non ha esitato a cogliere l’occasione per risparmiare sui costi, allargando la forbice, qualitativa e nutrizionale, con la produzione artigianale. Il riflusso legislativo però si è posto in controtendenza rispetto alla crescita culturale dei consumatori, aiutata dalle nuove norme sull’etichettatura, che forniscono informazioni precise per la scelta. Il vuoto aperto sarà presto colmato anche dai marchi di qualità: dopo il riconoscimento della tutela comunitaria al “torroncino croccantino di San Marco dei Cavoti”, in provincia di Benevento, una domanda di Igp è stata avanzata con riferimento al cioccolato modicano, già tutelato da una denominazione comunale, mentre è stato richiesto il riconoscimento della Stg (specialità tradizionale garantita) per l’ “antico cioccolato artigianale”, che deve essere puro, privo di lecitina di soia e preparato secondo rigorose procedure artigianali.
Ma la crescita è anche quantitativa. Secondo i dati dell’Associazione Industrie Dolciarie Italiane, nel periodo compreso fra il 1999 e il 2003 la produzione di cioccolato in Italia è aumentata del 17,1% in volume e del 28,2% in valore; nell’ultimo anno rispettivamente dello 0,9% e del 4,2%, a causa del clima torrido, che ha indotto un arresto nel trend positivo dei consumi. I prodotti a base di cacao rappresentano attualmente il 19,4% in volume e il 28,2% in valore dell’intero settore dolciario, equivalenti a 328.000 tonnellate e a 2.781,1 milioni di euro. Si segnalano in particolare le performance positive delle uova pasquali e degli snack al cioccolato, cresciuti nel 2003 del 7,9% in valore e del 3% in volume, mentre appaiono in crisi il cacao in polvere, le preparazioni solubili e il burro di cacao, spesso sostituito da surrogati. Sul medio periodo colpisce il balzo in avanti delle tavolette (+25,6% e +36,4%) e dei cioccolatini (+20,9% e +32,7%), che coprono attualmente il 39% del volume e il 51,6% del valore del mercato dei prodotti finiti. La crescita è stata costante anche sul fronte della domanda, dove si registra un consumo annuale medio di 1,2 chilogrammi nel 1982, 2,8 chilogrammi nel 1992, ben 4 chilogrammi nel 2003. Un’onda lunga che non accenna ad esaurirsi dagli anni ’50-’60, quando il comparto raddoppiò le sue cifre.
Il cioccolato insomma tira, anche sul piano dei prezzi. Un napolitain griffato è il miglior biglietto da visita per un caffè con qualche ambizione, e, dopo le enoteche e le boutique del gusto, anche le porte meno glamour della grande distribuzione si sono aperte ai prodotti di nicchia. Sono trend da tenere sott’occhio per i produttori industriali, che dopo avere mietuto successi commerciali clamorosi (si pensi al Mon chéri, pralina leader in Europa, al Ferrero Rocher, fra i cioccolatini piú venduti del mondo, e soprattutto alla Nutella, che controlla il 60% del mercato delle creme spalmabili), sembrano avere perso l’iniziativa e corrono ai ripari lanciando linee ricercate.
I laboratori artigianali sono concentrati attorno a tre poli di eccellenza: il Piemonte, la “Chocolate Valley” toscana, fra Pisa, Pistoia e Prato, e la cittadina di Modica, la cui produzione negli ultimi anni ha conosciuto una crescita annuale del 100%. Sono scuole che vantano tradizioni antiche, talvolta dimenticate, da rispolverare.
Dietro ai laboratori modicani c’è l’insegnamento dei dominatori Aragonesi, che trasmisero agli abitanti le tecniche di lavorazione degli Aztechi. I semi di cacao venivano tostati e macinati su una pietra chiamata metate con un apposito matterello, per poi essere lavorati a freddo, ad una temperatura mai superiore ai 45°C. Molte famiglie di Modica preparavano le tavolette in casa, oppure le acquistavano da un ambulante, il “ciucculattaru”, che si spostava con un carretto provvisto degli attrezzi necessari. Su una fetta di pane, rappresentavano un alimento fondamentale nella dieta delle fasce povere della popolazione. Lo stesso Sciascia ne “La Contea di Modica” ricorda queste tavolette “da mangiare in tocchi o da sciogliere in tazza: d’inarrivabile sapore, sicché a chi lo gusta sembra di essere arrivato all’archetipo, all’assoluto e che il cioccolato altrove prodotto – sia pure il piú celebrato – ne sia l’adulterazione, la corruzione”. Uno stile che l’Antica Dolceria Bonajuto ha fatto conoscere in tutta Italia e che ha sicuramente influenzato le moderne tendenze verso un cioccolato piú rustico, esente da concaggio. Alle spalle della Chocolate Valley toscana, con la sua creatività travolgente, c’è invece la cioccolata al gelsomino di Cosimo III de Medici, descritta da Piero Camporesi nel suo “Brodo Indiano”. A detta di Francesco Redi, medico, poeta e cioccolatiere di corte, veniva preparata con “scorze fresche de’ cedrati e de’ limoncelli, e l’odore gentilissimo del gelsomino, che mescolato colla cannella, colle vaniglie, coll’ambra e col muschio fa un sentire stupendo a coloro che del cioccolatte si dilettano”. Come si scoprì dopo la morte del suo Signore, i gelsomini freschi erano disposti fra strati di cacao all’interno di scatole ermetiche, che restavano chiuse per vari giorni, con diversi ricambi, in modo tale che il cioccolato si impregnasse di un profumo inebriante. Una ricetta che ricorda da vicino le praline ai fiori che vanno adesso di moda. Anche il Piemonte vanta una tradizione antichissima, che trova il suo cardine nell’istituzione sabauda dei caffè. Dopo la Toscana, Torino è stata il secondo centro di irradiazione del cibo degli dei, da quando nel 1678 Antonio Ari, cioccolatiere ambulante, ottenne la patente di “Madama reale” ed inaugurò la prima bottega specializzata in Italia. La sua scuola però attualmente è un po’ appannata, sostiene Luciano Stillitano della pasticceria Dany (Torino): “in città nessuno fa piú del buon cioccolato. Abbiamo perso l’iniziativa, manca la personalità che c’era un tempo e la lavorazione dei prodotti si è appiattita. Il Piemonte è rimasto indietro rispetto alla scuola toscana, che magari non ha una grande cultura del cioccolato, ma ha sviluppato la ricerca. Restiamo il maggiore distretto italiano, ma i nostri fiori all’occhiello sono sempre piú appassiti; dominano gli scioglitori e coloro che vendono i prodotti degli altri”. Non è d’accordo Silvio Bessone, presidente nazionale dei cioccolatieri, in attività a Vicoforte: “rispetto agli altri abbiamo un grande vantaggio di mercato e di cultura, perché il cioccolato piemontese è radicato nel territorio. In Toscana c’è molta fantasia, ma la gente non mangia il cioccolato, che viene ‘esportato’ altrove, quindi è piú visibile. In Piemonte invece si consuma la metà del cioccolato italiano, perché nelle case non manca mai un sacchetto di praline. Nella sola Mondovì, che conta ventimila abitanti, si mangiano duecento quintali di cioccolato: è un record assoluto. Noi piemontesi abbiamo un problema di marketing; i toscani invece sono in crescita sui giornali perché sanno vendersi bene, anche se molte ricette creative, che si pensa abbiano inventato, in realtà sono vecchie di decenni. In un certo senso ci hanno aiutato, perché hanno alzato i prezzi per tutti, ma questo trend, supportato da consumi molto elevati, rischia di far collassate il mercato, come è successo con il vino”. I maestri cioccolatai di queste zone hanno fatto scuola e una nuova generazione di artigiani si è affermata sull’intero territorio nazionale. Fra di loro ci sono molte “donne del cioccolato”, ad esempio la sarda Speranza Deriu di Sperandri (Torino e Suni), Cecilia Tessieri, maître chocolatier di Amedei (Pontedera), e Cecilia Iacobelli, vicepresidente nazionale dei cioccolatieri, che cura il design e il packaging di De Bondt (Pisa). Quest’ultima racconta: “La nostra azienda è nata dieci anni fa da un’idea mia e di Paul. A quei tempi il cioccolato era agli albori e c’era campo aperto per la ricerca, sia nel campo dei prodotti che nella cura dell’immagine. Il packaging non esisteva: predominava un’estetica romantica, da pasticceria, tutta fiocchetti e fiorellini. L’impronta della scuola toscana però è sempre stata l’essenzialità e anche noi volevamo fare un cioccolato creativo, dal gusto delicato e ben delineato, senza tante mescolanze. Avendo studiato design all’Accademia, ho ideato un’immagine moderna, ma non stravagante, che rispecchiasse questo spirito, con incarti trasparenti e senza fronzoli. Da noi la ricerca sul gusto genera l’estetica del prodotto, che si traduce naturalmente nel packaging finale. Sono idee ed immagini che nascono contemporaneamente a tavolino, come è accaduto per le stecche di cioccolato alla frutta secca, le linee pasquali a tema e l’albero di Natale stilizzato. Ma la presentazione ha fatto passi da gigante in tutt’Italia, direi che negli ultimi quattro anni si è completamente rivoluzionata, anche se forse adesso si esagera: in giro si vedono dei vestiti senza contenuto e gli artisti si sono messi a firmare le tavolette, come Dalì. La Francia non si è evoluta e continua ad offrire gli stessi prodotti di vent’anni fa; la Spagna invece è all’avanguardia come idee, ma non come qualità. Fa un cioccolato un po’provocatorio, dove non trovo l’equilibrio fra la forma e la sostanza, che per me è l’elemento fondamentale.”
Il cioccolato che fa tendenza è sempre piú amaro e sempre piú nero. I piú snob ormai vogliono solo il 100% di cacao, senza zucchero o grassi aggiunti, un’esplosione di sapore che mette a dura prova i palati piú sensibili, anche se, dice Andrea Trinci, della Torrefazione Trinci di Cascine di Buti: “Il 100% è un po’ una moda, perché il gusto ottimale si raggiunge attorno al 75% di cacao. Dieci anni fa nessuno avrebbe voluto un cioccolato senza zucchero”. L’intervento del cioccolatiere può situarsi a vari livelli: la qualità tende a tornare sempre piú indietro, verso le origini della materia, dalla copertura alla pasta di cacao, alla fava, alla piantagione. Oggi i produttori si suddividono in “scioglitori” (coloro che si limitano a dare forma ad una copertura preparata da altri), “miscelatori” (che mettono a punto un blend personalizzato di coperture) e “torrefattori” (che producono la copertura in proprio a partire dalla fava di cacao). Fra questi, sono sempre piú numerosi coloro che colgono la sfida del controllo dell’intera filiera, stringendo accordi specifici con i coltivatori delle piantagioni, come Andrea Trinci e Silvio Bessone, che racconta: “Collaboro con piantatori di Sao Tomé, Venezuela ed Ecuador, per avere una piena tracciabilità del cacao, come di tutti gli ingredienti, le nocciole, il latte, eccetera. E’ un progetto molto ambizioso, tuttora in svolgimento, perché nello stesso tempo sto ampliando la mia attività di torrefattore e mi adopero per il recupero delle antiche varietà”.
Accanto ai cru, molti cioccolatieri producono linee aromatizzate.
La sacralità del cacao si contrappone alla dimensione ludica del gusto, il patrimonio aromatico della materia alla creatività del maestro cioccolataio, secondo un trend bipolare che attraversa la gastronomia contemporanea. Spiega Fabio Lenci de Il Cioccolato il Bruco di Jesi: “facciamo molti cru di cacao, anche se non controlliamo tutta la filiera, come pochissimi produttori. A questo proposito bisogna fare dei distinguo. È fondamentale avere un rapporto diretto con le piantagioni, come Franzoni di Domori; comprare le fave dall’importatore invece è quasi come lavorare la massa grezza di cacao. Molti cioccolatieri dicono di avere il controllo della filiera, ma bisognerebbe verificare se è vero.
Accanto ai monocru, noi del Bruco siamo gli unici che utilizzano le spezie tradizionalmente impiegate nel cioccolato, ad esempio la cannella, l’anice e il peperoncino degli Aztechi, oppure la vaniglia, secondo l’uso europeo. Non si tratta di creazioni estemporanee, ma di ricerche riguardanti l’effetto degli aromi sulla percezione della cultivar. Adesso molti tendono ad esagerare negli abbinamenti, ci sono troppi imitatori che vogliono farsi spazio sul mercato”.
Scendendo nel dettaglio tecnico, il cioccolato non concato, oppure con il grué, la granella di cacao, si contrappone al cioccolato supervellutato; il fascino del primitivismo non soccombe alla raffinatezza tecnica. Andrea Trinci appartiene al primo partito: “Il mio cioccolato non è concato perché voglio rispettare al massimo le fave di cacao, che seleziono direttamente presso piccoli produttori, che ho conosciuto grazie al mio lavoro di torrefattore di caffè. Voglio fare una ‘barra della piantagione’ in cui resti l’essenziale, ma si tratta solo di una filosofia personale”. Si situa all’estremo opposto Silvio Bessone, che lavora le sue tavolette per 200 ore: “Il mio concaggio si svolge a freddo, ad una temperatura controllata di 32-33 gradi, per evitare l’evaporazione delle componenti aromatiche. Questo procedimento normalmente serve per eliminare l’umidità e il gusto sgradevole del cacao scadente; nel mio caso invece si tratta di una sorta di massaggio, che potenzia la morbidezza aromatica e la sensazione vellutata sul palato. Oggi ci sono nuove tecnologie, come i mulini a sfere, che rendono meno necessario il concaggio, ma non raggiungono una perfetta omogeneità delle particelle, per cui può restare una certa aggressività al palato”. Tavolettame a parte, il cioccolato è spesso il supporto di accostamenti ed elaborazioni creative, un inafferrabile camaleonte di forme, colori, consistenze, temperature, che fa tornare bambini anche i cioccolatieri piú esperti. L’estro si sbizzarrisce nella modellatura, che spazia dal kamasutra di Giraudi (Castellazzo Bormida) all’oggettistica, comprendente vestiti, pinze e tenaglie arrugginite. Si possono utilizzare due tecniche diverse, il calco di cacao o il silicone, per riprodurre qualsiasi oggetto.
L’eventuale contenuto è altrettanto imprevedibile. Le praline oggi portano in trionfo il tartufo, le erbe aromatiche, il brodo di pollo e il fegato d’oca; sposano i sentori fusion e i prodotti del territorio, come il gorgonzola e l’aceto balsamico. Il prodotto “strano” può funzionare da civetta, spiega Luca Mannori di Prato, campione del mondo di pasticceria : “In giro vedo degli abbinamenti arditissimi, ma alla fine secondo me servono piú che altro per incuriosire i clienti e vendere i prodotti piú consueti”. I confini della gastronomia diventano sempre piú labili, finché non si penetra nel campo del salato, dove il cioccolato è un affare da chef. L’uso del cacao nelle pietanze, dal mole poblano, lo spezzatino messicano di tacchino e cacao, all’artusiano “Cignale in dolceforte”, è antico e diffuso. A rinverdirlo sono oggi molti chef, per i quali il cacao è un aroma sottile e persistente, che fa quadrare il cerchio del piatto. Ne sa qualcosa Carlo Cracco, del ristorante Craccopeck di Milano, che in questo mese è fra i relatori di un congresso sul cioccolato dolce e salato a San Sebastian: “In carta abbiamo una crema di riso allo zafferano con il midollo, i chicchi croccanti e il cioccolato al 70-72% di cacao; un risotto con la pasta di acciughe, la buccia di limone grattugiata e un disco di cioccolato al 99% e un ragoût di fave brasate, con un po’di burro per legare, il midollo cotto sulla piastra e una corona di cioccolato grattugiato al 70-72%, che si scioglie sul piatto, sprigionando il suo profumo. In stagione c’è anche un dessert di nespole cotte al forno con una gelatina bianca di fave di cacao tostate e macerate, sormontate da fave caramellate.
Invece non utilizzo cacao, perché lo ritengo un prodotto di scarto. Noi tutti conosciamo il cioccolato nella sua versione dolce, ma si tratta di un’alterazione del gusto naturale del prodotto; nei miei piatti invece voglio tornare alle origini del cacao, utilizzarlo come una spezia, un normale condimento, nello stesso modo in cui metto un giro d’olio sul piatto. Non è una novità, perché nella cucina tradizionale italiana ci sono dei piatti di selvaggina con la salsa al cioccolato. Si tratta di fondi di capriolo, oppure di lepre, preparati con gli odori e il vino, nei quali a metà cottura si mette un pezzettino di cioccolato, per dare untuosità e profumo, si fa bollire il tutto e poi si passa. Quel tocco finale, quella sfumatura sono bellissimi, ma il cacao non si può aggiungere dappertutto: le spezie vanno sempre usate con parsimonia e non devono essere ripetute nel menú. Il ragoût di fave è un piatto che amo molto, morbidissimo, di grande immediatezza, ma dopo non si può mettere niente. Lo serviamo fra la carne e un dolce, in cui il cioccolato per giunta non c’è.
Per quanto riguarda le bevande, con il midollo e le fave si può optare per un vino rosso corposo a bassa acidità; con gli altri piatti forse è meglio l’acqua”.
Fra gelati salati e bavaresi di verdura, dessert vegetali e alle spezie, la pasticceria e la cucina si scambiano sempre piú spesso tecniche, utensili e ingredienti, aprendo un territorio di frontiera in cui il cioccolato può sicuramente dire la sua.
LE NUOVE TENDENZE DELL’ABBINAMENTO
Roberto Gardini, primo sommelier d’Italia nel 1993, campione del mondo di degustazione nel 1998 e titolare dell’omonimo ristorante a Cervia, è un’autorità in materia di abbinamenti vino/cioccolato, soggetto che ha esplorato anche come consulente per vari produttori.
• Esiste un vino da cioccolato?
Tradizionalmente il cioccolato è stato considerato incompatibile con il vino, soprattutto in Italia, a causa delle sue spiccate sensazioni grasse, acide e amare, di lunga persistenza.
Le cose però hanno cominciato a cambiare quindici anni fa, con il rinnovamento del comparto ad opera dei maestri cioccolatai. Si è iniziato ad abbinare il cioccolato ad alto tenore di cacao con i passiti rossi, il vino amarascato, il Barolo chinato. Nel quadro delle mie consulenze ho constatato che il mariage migliore è con lo Sherry Pedro Ximénez, ma si può optare anche per il Banyuls, il Maury, alcuni Porto Vintage, oppure l’italiano Anghelu Ruju. Adesso si stanno sperimentando abbinamenti arditi e stimolanti, ad esempio con l’Amarone e lo Sforzato, per la nota alcolica dominante, l’avvolgenza e la rotondità. Reggono un cioccolato a 50-60% di cacao, anche se in modo imperfetto.
• Alcuni però preferiscono altre bevande, ad esempio i distillati, la birra, oppure, perché no, il tè e il caffè.
Fra i distillati sono da preferire i Rum agricoli della Martinica, i Rum invecchiati cubani e i Demerara di vent’anni.
Con la loro morbidezza e la loro forza alcolica, tengono testa all’aromaticità e alla persistenza del cioccolato, ripulendo il palato. In alternativa si può ricorrere a Grappe e Whisky invecchiati, oppure a Bas Armagnac e Cognac d’annata, con sfumature di rancio che sposano il fondente in mariage incredibili. Anche la birra va di moda, soprattutto quella a doppio malto, corposa e piena. Abbinata al cioccolato bianco o al latte, dà una gradevole sensazione di equilibrio gustativo. Sul cioccolato bianco vedo bene una birra aromatizzata alle ciliegie, con l’alternativa di alcuni Cognac. Uscendo dal campo degli alcolici, alcuni tipi di caffè e di tè possono risultare piacevoli con un cioccolato al 50% di cacao, ma sono tutte sostanze nervine, che sommano i loro effetti eccitanti; per di piú non si tratta di abbinamenti veri e propri, ma di soluzioni limitate a fine pasto.
Gli artisti del cacao:
cioccolatiere e pasticcere a confronto
Roberto Catinari, cioccolatiere
di Agliana, fondatore della
Chocolate Valley toscana:
“Ho intrapreso questa professione un po’ per caso. Personalmente sono un buongustaio, un fortissimo mangiatore di cioccolato. Da bambino il cremino sul pane era la mia merenda preferita, ma ancora adesso mangio un etto di cioccolato al giorno, anche al posto del caffè, per tirarmi su.
Professionalmente mi sono formato in Svizzera, perché ‘cioccolatai’ non si nasce, si diventa.
Sono partito nel 1954, a diciassette anni, e ho trovato impiego in una pasticceria come lavapiatti, poi mi hanno messo a lavorare al forno, ma non stavo bene di stomaco, per cui sono finito nel reparto cioccolato, dove per cinque anni mi sono limitato a pulire e riordinare, guardandomi intorno. Alla fine ho trascorso vent’anni in questa azienda artigianale, anche se a un certo punto ho pensato di smettere e mio padre mi ha spedito la biografia di Ferrero, per spronarmi a restare. Nel 1973 ho vinto la medaglia d’oro ad un’esposizione di Zurigo con un cioccolatino al Vin Santo e ho capito che avevo delle potenzialità.
Ero indeciso se restare nella pasticceria, che mi garantiva uno stipendio buono, un appartamento e una macchina, oppure partire all’avventura e ricominciare da zero a Bardalone, in piena montagna pistoiese. Sono tornato in Toscana nel 1974, quando non c’era nessuno, o quasi, che faceva il cioccolato. Sono stato un creatore, perché ho adeguato le tecniche svizzere al territorio, soprattutto nella pralineria, dove tutto era nuovo.
Non è stato facile farsi un mercato. La gente guardava i miei prodotti e diceva: che roba è? Poi però li assaggiava, cambiava idea e il passaparola cominciava. Facevo tutto a mano, con due rudimentali scioglitori.
All’inizio compravo la copertura, come fanno tutti, e la miscelavo in una sorta di cuvée. Adesso faccio il cioccolato da me, a partire dalla fave. Non è concato, né aggiungo aromi, ad esempio la vaniglia, perché voglio conservare il gusto naturale delle fave, che compro da un coltivatore di Sao Tomé. Si tratta di Forastero, che magari non è la varietà piú pregiata, ma oggi alcuni spacciano per Criollo delle fave di altre cultivar. Bisognerebbe andare a controllare. Il volume produttivo è di circa 17 tonnellate l’anno, per cui praticamente compro e vendo.
Restare piccolo è stata una scelta, per conservare l’artigianalità e la manualità della lavorazione, che mi dà una grande soddisfazione interiore, anche se magari ci sono dei macchinari che mi mancano: all’inizio tostavo le fave in un forno comune, che non dava certo risultati uniformi; le conche poi non le ho mai avute, anche se ho fatto di necessità virtú. Da cosa si sente un buon cioccolato? Deve soddisfare il palato. Oggi i cioccolatieri italiani hanno colmato il gap rispetto alle altre scuole; i toscani però devono stare attenti a non esagerare con le sperimentazioni.
Molti vogliono distinguersi sul mercato con delle proposte originali, che alla fine hanno un ciclo produttivo molto breve, mentre da me ci sono ancora delle praline che facevo nel ’74, perché sono dei classici, che sono rimasti nel tempo.
Io ho trent’anni di esperienza, anche nel lavare i piatti. Un altro problema è l’industria.
La direttiva europea paradossalmente ha aumentato la domanda, che non riesco a soddisfare, per cui volendo potrei aumentare i prezzi.
La mia pralineria fresca, con i suoi costi di manodopera e materie prime, viene 33 euro l’etto, contro i 120 di alcuni cioccolatieri francesi. Ogni tanto però vedo che le grandi imprese prendono le idee di noi artigiani e le riproducono su grande scala, magari a prezzi inferiori, perché la lavorazione è meccanizzata. Abbiamo aperto un mercato di qualità nel quale si stanno buttando anche loro, con i cru e le tavolette al 100%.”
Luca Mannori, pasticcere
di Prato, campione del mondo
di pasticceria:
“Faccio una pasticceria italiana rinnovata: italiana nel gusto, anche semplice; rinnovata negli abbinamenti e nell’estetica. Questo settore si evolve rapidamente: alcune cose che magari sembravano buone vent’anni fa, non sono piú gradite a molti palati. Non possiamo piú fare un dolce ‘come una volta’, e non solo per ragioni igieniche.
Le macchine hanno migliorato la qualità della vita dei pasticceri, riducendo gli orari e la fatica, ma soprattutto hanno consentito di ottenere risultati di gran lunga migliori, ad esempio creme piú soffici e leggere, a parità di ricetta. L’industria da questo punto di vista è avanzatissima. Io mi definirei un pasticcere meccanizzato: del passato conservo la lievitazione naturale e la ricerca dei profumi attraverso l’infusione, al posto degli oli essenziali.
Venendo dalla pasticceria, come cioccolatiere sono incline a miscelare: è un’abitudine che va a braccetto con lo spirito di rinnovamento. Nel 1997 ho vinto i campionati del mondo di pasticceria con la Sette Veli, una torta classica a base di cioccolato e nocciole.
Era una ricerca incentrata non tanto sul gusto, quanto sull’elaborazione tecnica, la sofficità e la cremosità, con dei veli di cioccolato all’interno della bavarese, per creare una masticazione particolare.
Nel 2003 ho inventato la crema spalmabile all’olio di oliva, perché volevo fare qualcosa di nuovo, che rappresentasse un po’ la nostra zona. La gente richiede la tipicità, ma questa regione, pur avendo un’immagine molto positiva, non ha grandi specialità nel campo della pasticceria. La scuola toscana è nata un po’ dal nulla, da un gruppo di persone che quindici anni fa hanno iniziato a fare cioccolato per passione. All’inizio si lavorava solo a Pasqua, perché le gente, se voleva un dolce, comprava il pasticcino.
Il fatto di non avere una tradizione però ci ha dato una libertà maggiore, perché chi viene da una scuola tende a conservarsi. I cioccolatieri francesi, ad esempio, hanno una grande tecnica, ma sono tradizionalisti; in Spagna invece c’è molto fermento, l’estetica è raffinata, quasi giapponese, con una forte ricerca su piante e fiori particolari. Oggi non c’è limite alla creatività, a parte la soglia della vendibilità. Vedo in giro abbinamenti che non potrei riprodurre, perché nessuno li capirebbe, soprattutto su una piazza provinciale come Prato. All’inizio era duro vendere persino il cioccolato con il lampone, ma la soglia si è spostata, anche se forse le aspettative dei clienti sono piú conservatrici sul dolce che sul salato. Va di moda il cioccolato fai da te, ma è come proporre del pane duro a chi è abituato ad averlo morbido.
Solo chi dispone di una tecnologia avanzata può fare il cioccolato a partire dalle fave, altrimenti otterrà un prodotto intenso, ma grossolano. Alcuni usano addirittura delle fave non tostate, ma si tratta di bombe batteriologiche.
La tostatura è una fase delicata. Io non ho tostini, ma neppure quelli da caffè andrebbero bene. Utilizzarli significherebbe fare un passo indietro rispetto all� industria, che si è evoluta moltissimo, trasformando completamente il sapore delle fave. Quindici anni fa la gente preferiva il cioccolato al latte, perché la tecnica era arretrata, la tostatura esasperata e il fondente risultava aggressivo; le attrezzature odierne invece garantiscono una torrefazione perfetta ed uniforme, per cui il fondente è venuto alla ribalta.”
La casa
del cioccolato
Squisito come il cioccolato! Nell’ambito del IV Festival della Cucina Italiana, tenutosi a San Patrignano il 9 e 10 ottobre scorsi all� interno della kermesse “Squisito”, è stata allestita una “Casa del cioccolato” aperta ininterrottamente da mattina a sera. Un appuntamento che Hansel e Gretel non avrebbero certo disdegnato! Il côté dolce è stato curato da Carmelo e Antonio Brancato dell’omonima pasticceria di Siracusa; la pralineria dal sorrentino Costantino Della Pietà che hanno sfornato a ciclo continuo merende e colazioni a base di lieviti, pasticcini, praline e torte rigorosamente al cioccolato. Sono stati inoltre preparati interi pasti al cacao, dalle entrée al dessert. La squadra, formata da 9 membri dell’Accademia Nazionale Italcuochi, era capitanata da Maurizio Urso, chef del Grand Hotel Villa Politi di Siracusa, che spiega: “Abbiamo voluto ritrovare le radici del cacao, che nella cultura azteca veniva consumato senza zucchero. Questa sfaccettatura è ben presente nelle nostre tradizioni gastronomiche: molti piatti che abbiamo riproposto fanno parte della cucina regionale e sono stati eseguiti nel pieno rispetto delle ricette originali, ad esempio il coniglio con la cioccolata, la caponata e la bobbia, tutte specialità siciliane”. Lo chef Giuseppe Pappalardo è un esperto in materia: “Il coniglio alla portuisa è una ricetta tipica di Ragusa, di ascendenza spagnola. Si tratta di una variante della stimpirata, una delle preparazione base della cucina siciliana, nella quale le olive e i capperi sono sostituiti a fine cottura da una grattugiata di cioccolato e da foglioline di timo fresco. La tradizione prescrive l’uso di cioccolata modicana lavorata a freddo, come nel caso delle ‘mpanatigghie modicane, gli unici dolci al mondo a base di carne e cioccolato”. Pappalardo ha censito 8 varianti di caponata, fra cui quella al cioccolato. La bobbia, in dialetto “miscuglio”, è invece una sorta di ratatouille isolana. Le verdure vengono cotte con un po’ di acqua, in una sorta di minestrone, prima di essere addizionate di pinoli, uvetta e cacao.
La casa del cioccolato ha mostrato come questa antica sfaccettatura del cibo degli dei possa essere declinata anche in chiave moderna. Il cioccolato in tutte le sue forme, dalle tavolette al cacao in polvere, al grué, può sposare ingredienti del mare e della terra, trasformandosi in spezia. Il campione della creatività è stato Marco Melzi, arrivato da Monza, che così illustra le sue ricette: “Preparo il tonno al cioccolato con una marinatura tradizionale sarda a base di pomodori secchi, pomodori di Pachino, finocchietto selvatico, menta, basilico, aglio, olio, succo di limone, spicchi di arancia pelati a vivo e grué; lo affetto sottilmente e lo servo su una cialda di pâte à choux. La gallina invece è porchettata, ovvero disossata, aromatizzata sotto pelle con buccia di limone, menta, olio, rosmarino, sale e pepe, cotta in forno e sottovuoto, per fissare gli aromi.
È accompagnata da un gelato di parmigiano preparato con il brodo della gallina, vaniglia, scorza di limone e sale aromatizzato con la menta e il limone.
Ho inoltre ideato un tortello aperto di pasta al cacao con la provola dolce, il timo e il limone, condito con un ragú di porcellino”. Specialità che hanno raccolto i favori dei visitatori e della RAI, che ha voluto dedicare un ampio servizio a questa insolita “casa”.
Le scarpe di Charlot
La riviera svizzera del Lemano da Vevey a Montreux si snoda tra giardini, palazzi Belle Epoque e i grandi alberghi e ristoranti che l’hanno resa famosa.
Dalla riva si può risalire a piedi o con il trenino fino ai vigneti o piú su fino al paradiso delle marmotte o al giardino alpino di Rochers-de-Naye.
E’ una regione accogliente, resa vivace da varie manifestazioni, tra le quali spicca a luglio il Festival del Jazz a Montreux, e molto apprezzata dai turisti, anche famosi come l’architetto Le Corbusier, gli scrittori Dostoievski, Hugo e Greene, artisti, attori e altri VIP di oggi.
Tra tutti, il piú amato è però Charlie Chaplin che visse con la moglie Oona O’Neil a Corsier, dove ora sono entrambi sepolti.
Qui la famiglia Chaplin ha ancora la casa e la statua di Charlot guarda il lungolago davanti al bellissimo Museo dell’Alimentazione di Vevey.
E per ricordare l’arte di Charlot il maestro cioccolatiere Poyet, dell’omonima e storica confiserie a Vevey, ha ideato dei cioccolatini che riproducono le caratteristiche scarpe del personaggio cinematografico ma ne richiamano allo stesso tempo anche la personalità.
Dopo essersi consultato con la famiglia di Sir Charles Chaplin, Baise Poyet ha infatti creato una pasta di cioccolato che è dolce e amara, morbida e croccante, così com’era il carattere del grande attore.
Il cioccolato viene messo a solidificare in piccoli stampi e quindi i cioccolatini sono confezionati in scatole di cartone o in originali scatole di latta a forma di “pizza” cinematografica.
La confiserie Poyet è famosa anche per la sua produzione di torte, piccola pasticceria e altri cioccolatini che vengono preparati da un gruppo di esperti cioccolatieri sotto la guida di Baise Poyet.
Egli sceglie personalmente i vari tipi di pasta di cacao che gli occorrono per la lavorazione delle scarpe di Charlot e di ogni altro prodotto a base di cioccolato in vendita nel negozio.
Baise Poyet mette inoltre a disposizione degli appassionati di cioccolato la sua esperienza con corsi di degustazione molto approfonditi ma si possono anche prenotare delle visite guidate dell’efficientissimo laboratorio o limitarsi a gustare le specialità dolciarie o quelle dell’annesso ristorante.
La confiserie e il ristorante sono a Vevey
in Rue du Théâtre 8,
telefono 0041 21 921 3737,
fax 0041 21 922 4430;
per acquisti on line consultare
il sito www.confiseriepoyet.ch.
Cioccolato affumicato all’offelleria Rizzati
Dopo la rivoluzione degli anni ’70, il cioccolato d’autore italiano è felicemente approdato alla seconda generazione, immettendo radici piú salde nel territorio. I fondatori hanno formato una nuova leva di artigiani, come il trentenne Franco Rizzati, maitre chocolatier dell’Offelleria Rizzati di Cocomaro di Focomorto, in provincia di Ferrara. I1 suo ingresso nel settore è stato graduale, sull’onda del successo dei dessert dei ristoranti di famiglia, dove furoreggiava la degustazione di cioccolato.
Due anni fa la produzione si è trasformata in un’attività autonoma con la fondazione dell’Offelleria Rizzati, che prepara artigianalmente specialità come la tenerina, i canditi, glassati e nature, le tavolette e le praline, all’avanguardia nel gusto e nella tecnica. La nuova linea degli Affumicati è stata appena presentata al Salone del Gusto, dove ha destato un notevole interesse.
I1 laboratorio dolciario è nato come costola dei ristoranti, che tuttora gestisci con i tuoi fratelli.
Come è avvenuta la tua conversione alla cioccolateria?
Ho iniziato a lavorare il cioccolato dieci anni fa e mi sono appassionato sempre piú per il mondo del cacao. All’inizio utilizzavo coperture già pronte, poi mi sono formato un gusto personale e ho iniziato a miscelarle. Da sei anni controllo anche i semi: li acquisto, tostati o meno, e li faccio lavorare dal mio amico Gianluca Franzoni di Domori, anche se la sua filosofia del cioccolato è molto diversa dalla mia. Io preferisco i prodotti non concati, perché la conca, girando a 80° C anche per 76 ore, elimina gli aromi primari del cacao.
Come ti sei formato?
Ho frequentato molti corsi e ho collaborato con il numero uno dei cioccolatieri italiani, Roberto Catinari. Mi considero un suo allievo, anche se poi ognuno ha la sua personalità. Lui ha ricevuto una formazione particolare in Svizzera, in tempi diversi, quando il fondente non era ancora in auge.
Quali sono i punti di forza dei tuoi prodotti?
Per quanto riguarda le tavolette, non sono un fanatico dei cru: per me la cosa fondamentale è che il gusto finale risulti equilibrato. Quando le fave sono eccezionali, posso trasformarle in tavolette monorigine, altrimenti le miscelo nei blend. I1 cioccolatiere deve sempre adattarsi alla materia prima, perché il cacao è una pianta semestrale, quindi è molto variabile.
Poi c’è la linea degli Speziati, che in realtà sono Affumicati. I1 cacao non è alterato con l’aggiunta di oli essenziali, ma viene profumato bruciando spezie naturali. L’affumicatura può avvenire sulla massa o sul seme, utilizzando timo, rosmarino, ginepro, cannella, trucioli di faggio macerati nel moscato passito, cardamomo fresco provenzaleÈ un prodotto di mia invenzione, coperto da brevetto, ottimo con le grappe invecchiate nel legno. Colgo l’occasione per dedicarlo a Roberto, che nel suo negozio di Agliana mette in mostra un quarto di quello che sa.
Sei famoso anche per le praline alla birra.
L’abbinamento fra la birra e il cioccolato mi è sempre piaciuto, per cui sette anni fa ho iniziato a collaborare con il birrificio Baladin, abbiamo organizzato molte degustazioni e sono nate le praline. Vengono preparate come comuni cioccolatini al liquore, ma contengono un grandissimo prodotto, la loro Noel, la regina delle doppio malto. All’inizio erano riservate al ristorante, ma cinque anni fa ho iniziato a venderle anche al pubblico.
Come giudichi la situazione del cioccolato artigianale italiano?
La qualità dei prodotti è molto cresciuta, i consumatori sono diventati piú curiosi ed esigenti.
Credo che il cioccolato meriterebbe un maggiore riconoscimento istituzionale, anche nella scuola alberghiera, dove non viene considerato abbastanza. (E.B.)
Le emozioni gustative
di Richart
Il negozio Richart a Milano è un piccolo tempio del cioccolato, nel quale gli appassionati entrano già pregustando il piacere di scegliere tra tante raffinate prelibatezze quella che meglio si addice all’umore e al desiderio del momento. E la scelta è davvero ampia tra i cioccolatini delle collezioni Richart che comprendono decine di ganache, praline, placche sottili di cacao di cacao puro di varie provenienze e altri prodotti, aromatizzati agli agrumi, alle erbe, ai fiori, alle spezie, con mandorle e nocciole tostate e altro ancora, tra cui prodotti personalizzati per eventi e regali davvero speciali. Però i piú originali sono forse i Graines de Gourmet sui quali sono riprodotti i disegni eseguiti da bambini e ragazzi di età compresa tra i 2 e i 12 anni, vincitori del concorso organizzato ogni anno dall’Associazione Richart Emotion presso le sue 13 boutiques nel mondo. Tutti i cioccolatini e i vari prodotti al cioccolato sono realizzati presso la moderna sede di oltre 2000 mq a Sant’André de Corcy vicino Lione e spediti settimanalmente alle boutiques Richart. Sono quindi sempre freschissimi e garantiti dall’esperienza di quasi 80 anni di questa azienda che punta tutto sulla qualità del prodotto e sulla passione di chi lo vende. Infatti i negozi sono gestiti da veri intenditori, come Giuseppe Basile a Milano, socio tra l’altro della Compagnia del Cioccolato, che ha allestito il negozio in modo semplice e funzionale, con cioccolatini & C. allineati per tipo perché la scelta sia piú agevole. Ma, malgrado il negozio abbia una temperatura controllata, il prodotto consegnato al cliente non viene poi preso dal banco ma da una stanza climatizzata dove le scorte sono tenute alla temperatura di 10°C e con una umidità del 70% e perciò in condizioni ottimali. Il negozio è anche un punto di incontro per gli amanti del cioccolato ai quali non viene mai fatta fretta ma anzi possono assaggiare i cioccolatini per trovare quello che preferiscono e dissertare con Giuseppe Basile di cioccolato o di abbinamenti, provando i vini, i distillati e perfino l’aceto balsamico tradizionale che fanno bella mostra accanto al cioccolato da degustare e che si possono ugualmente acquistare. A etichetta Richart anche due ottimi blanc de blanc, uno millesimato e uno no, prodotti appositamente per l’abbinamento con il cioccolato. Cioccolatini e praline sono confezionati in elegantissime scatole bianche, quadrate e munite di piccoli cassetti, e vengono spediti ovunque, su richiesta, tramite corriere specializzato con consegna nel giro di circa 24 ore. (E.B.)