New York Times: Il celebre quotidiano americano testa limiti e potenzialità dell’intelligenza artificiale in cucina, chiedendo a CHATGPT di concepire un menu per il giorno del ringraziamento e facendolo giudicare dai suoi critici gastronomici: ecco i clamorosi risultati.
Intelligenza artificiale sì, intelligenza artificiale no. Mentre tutti (ma proprio tutti) si chiedono se la propria attività professionale, con annesso tenore di vita, sia destinata a scomparire nei prossimi anni, spazzata via da una distopia tecnologica, anche in cucina si comincia a ragionare sulle potenzialità dello strumento, che apparentemente avrebbe poco a che spartire con gli organi di senso. Di fatto, dicono gli esperti, a parte il naso elettronico, inaffidabile o comunque immaturo, il comparto sarebbe difficilmente scalfibile grazie alla fisicità su cui è fondato. Il New York Times, tuttavia, ha appena concluso un clamoroso esperimento per sincerarsi di limiti e potenzialità del suo uso.
Nel gergo si chiama “big data kitchen”: configurandosi CHATGPT come un sistema di probabilità statistica, che attinge informazioni dal repertorio gastronomico che invade la rete, non è difficile farle compilare ricette comprensive di foto autogenerate, ingredienti misurati rigorosamente e procedimenti a prova di profano. Ma quanto questo materiale possa risultare gradito ai sensi umani, una volta eseguito, resta tutto da vedere. Di fatto le ricette appaiono alla lettura assolutamente indistinguibili da quelle di sempre e potrebbero aiutare a personalizzare i piatti, secondo le preferenze personali o la disponibilità di utensili.
In pratica il quotidiano più importante del mondo ha chiesto ad AI di comporre un intero menu per il giorno del ringraziamento, impartendole qualche istruzione relativa a gusti personali: si trattava di produrre ricette adatte a un destinatario originario del Texas, cresciuto in una famiglia indiana americana, amante dei cibi speziati, della cucina italiana e tailandese e dei dolci poco dolci. Fra gli ingredienti frequentemente consumati con piacere, ulteriore input per la macchina, chaat masala, miso, salsa di soia, erbe aromatiche e concentrato di pomodoro, che sono stati pedissequamente ripresi come in un compitino ben eseguito.
Ne è uscito un percorso composto di chaat di zucca, tacchino arrosto alla soia, contorno di fagiolini con miso e sesamo, budino di pane naan, salsa di mirtilli e dolce di zucca glassato di formaggio all’arancia. A giudicare il risultato sono stati chiamati quattro critici gastronomici della testata, i quali hanno sentenziato in modo concorde che le ricette risultavano ora sorprendenti (i fagiolini), ora estremamente deludenti (l’amaro cattivo del chaat), ora deliziose (la salsa di mirtilli), ora disgustose (la torta più salata che dolce), talvolta sconclusionate (il budino di naan) e comunque “mai nel mezzo”. Inoltre, secondo i quattro, a mancare clamorosamente sarebbero stati emozioni e contesto, calore e anima dello storytelling, insomma il fattore umano.
Sebbene sia legittimo chiedersi se in una degustazione alla cieca, ignorando l’autore, il responso sarebbe stato il medesimo, la conclusione è stata che AI non è ancora pronta per prendere il posto dei cuochi, almeno per i prossimi 30 o 40 anni. Ma proprio la figura del critico gastronomico potrebbe essere abbattuta dal medesimo killer, se è vero che secondo un altro esperimento i lettori troverebbero addirittura più affidabili le recensioni compilate da AI, in base al suo cosiddetto “iperrealismo”.