Non so se commetto un abuso, ma se guardo alla figura di Gualtiero Marchesi alla luce della sua storia e con la distanza dei ventitré anni che ci conosciamo e delle tante volte che ho scritto di lui, vedendolo ora mentre scende dalla sua auto ed entra al Marchesino, il ristorante che ha aperto a Milano nel 2008 a fianco del Teatro alla Scala, mi torna in mente quello spiritaccio di Aldo Palazzeschi e la sua canzonetta giocosa “E lasciatemi divertire”.
E viene sì da pensare a Marchesi come un grande che non è mai diventato adulto, se poi nelle toilette del ristorante trovo un suo ritratto fotografico al centro di una larga cornice dove è scritto a stampatello: “Chi è in fondo un grande cuoco? Un bambino che gioca tutta la vita a fare un mestiere da grande”.
Sono a Milano per intervistarlo, ho appuntamento con lui qui al ristorante. Al telefono mi ha detto di chiamarlo quando stavo per arrivare, lui partiva da Erbusco, un’oretta e poco più se non c’è traffico e, insomma, ci troviamo intorno alle 10.
L'Intervista
Eccolo. Vitale, vivace, svagato, rapito all’improvviso da continui entusiasmi che rubano la sua attenzione per l’ultima cosa che gli preme dire; e così che il filo del discorso s’interrompe, si perde, o rimane in sospeso, lasciato in sonno per poi magari tornare, ma il corso non è lo stesso, è deviato, s’è spostato altrove ed ora corre in altra direzione.
Ci salutiamo. Il tempo rubato per qualche foto e ci accomodiamo ad un tavolo d’angolo. Lui prende posto dando le spalle alla parete:
Così controllo la sala, sorride. Dimmi, allora, abbiamo tutto il tempo.
Bene, dico io, per nulla rassicurato. L’ultima nostra chiacchierata risale ormai a dieci anni fa. Cominciamo col parlare della sua visibilità mediatica, accenno al consenso che ha dato al comico toscano Leonardo Pieraccioni di utilizzare il suo nome per il personaggio del suo ultimo film.
Sì, mi disse che se non avessi voluto l’avrebbe chiesto a Vissani, ed io dissi ma no, ed accettai subito, fa divertito.
Precedentemente c’è stata anche una tua piccola partecipazione al doppiaggio di quel delizioso film d’animazione, Ratatouille.
Bèh, era una battuta appena. Facevo l’ispettore sanitario.
Alla fine degli anni Ottanta, ricordiamo insieme, era finito su Topolino: il suo nome figurava in un fumetto storpiato in Gualtiero Barchesi. Già. Quella vignetta circolò con un commento che diceva: sfondato il muro dell’immaginario collettivo!
L’intervista non è ancora iniziata e lui s’agita nel vedere una coppia che prende posto ad un tavolo accanto. La donna è in piedi e si sta guardando in giro. Gualtiero s’alza e sollecita qualcuno in sala ad occuparsi dei due. Ricordo una situazione analoga nel suo ristorante di Erbusco, eravamo seduti a parlare nell’ingresso, quando lo vidi scattare in piedi per accompagnare alla porta e ringraziare dei clienti che uscivano.
Mestiere? Attenzione costante alla soddisfazione del cliente? Comunque il suo atteggiamento non è cambiato.
Mi fa: possiamo traslocare?Ti dispiace? Ho un appuntamento con l’elettricista in Via Cadorna.
In breve ci ritroviamo in macchina. Guida spedito come un giovanotto. Si viaggia bene, fuori c’è poco traffico e tanto freddo. Arriviamo nell’appartamento che ha preso, mi dice, da meno di 15 giorni. È ancora tutto d’arredare. Alcune finestre danno su via Bezzecca, di fronte c’è una lunga palazzina grigia. Me la indica: è lì, proprio di fronte al mercato, dove ebbe sede l’albergo di famiglia dal 1927 al 1966. Intanto, Arturo, l’elettricista, settantacinque anni ben portati, è arrivato, e Gualtiero dà disposizioni su cosa deve fare. Prendiamo posto su un divano e inizia finalmente la nostra chiacchiera.
Vent’anni fa tu dicevi che noi italiani rispetto ai francesi, quanto a tradizione e cultura gastronomica siamo giovani, per ragioni storiche e culturali. Siamo diventati un po’ più adulti da allora?
Vedi, attacca lui, cosa hanno venduto al mondo i francesi? La cucina internazionale che è la cucina di tutti. Ma cosa hanno venduto veramente? Hanno venduto la professionalità. Noi abbiamo prodotti magnifici, ma non abbiamo professionalità. Per diventare un cuoco ci vogliono 10-12 anni di duro lavoro. Senza tecnica non fai niente.
Noi non possediamo la tecnica, non abbiamo professionalità, lo interrompo.
La cucina è una scienza, deve essere una scienza. Ribatte lui con convinzione. Ma chi ne sa qualcosa del rapporto fra intensità del fuoco e lo spessore della padella? Perché tutti parlano delle temperature del forno e nessuno di quella dei fuochi? Quando Jean Troisgros rifece le cucine, aveva un pannello con tutte le temperature delle piastre. Certo, poi la cucina può diventare arte se trova l’artista.
Spiegami questo concetto.
Diventa arte quando c’è un’idea. I miei piatti sono sempre netti, puliti, puliti nel senso che c’è sempre un’idea. Alla fine è l’idea che conta. Ho una citazione di Herman Hesse, è bellissima, dopo se vuoi te la leggo, ce l’ho qui, ce l’ho su quel quaderno di appunti dove scrivo tutte le cose. L’idea non è carne e non è sangue, ma una cosa indefinibile, è qualcosa che l’artista ha prima dentro quando fa una cosa.
Qui mi racconta di aver visto in televisione i famosi scalatori Messner e Bonatti, e il primo che spiegava come per arrivare alla vetta era necessario prima elaborare una rappresentazione mentale dell’intero percorso, conquistare la vetta concettualmente.
Capisci? Diversamente non stai su, non arrivi in cima! Allora, anche conquistare una vetta diventa un’opera d’arte. Dice. Questo mi ha ricordato Michelangelo che vedeva già nel blocco di marmo il David. Doveva soltanto levare il superfluo e liberarlo.
Ma l’artista che fa un quadro una scultura, l’ha fatta ed è finita. È un’opera che rimane unica, un cuoco invece…
È lo stesso, incalza lui. Lo stesso risotto fatto dieci volte non sarà mai uguale. Come per un brano musicale. Sai cosa diceva Dario De Rosa, pianista del Trio di Trieste a mia moglie Antonietta, anche lei pianista? “Antonietta non si ripete, si rifà”. Una ricetta che tu fai in continuazione, è rifatta. Sempre. Tutte le volte.
E di tutti questi giovani talenti? Provo a dire.
Io faccio questa distinzione, dice, fra il compositore, l’esecutore e l’interprete. Noi abbiamo bisogno di tanti esecutori, fra i quali… fra quelli bravi, sottolinea, verrà fuori anche un interprete. Oggi abbiamo bisogno di orchestrali, non di solisti. Qua tutti fanno i solisti!
Come dargli torto? Oggi si scoprono e si premiano sempre nuovi fenomeni ai fornelli, sollecitati, spinti ancora giovanissimi a salire alla ribalta mediatica.
Certo, non è possibile che siano tutti dei compositori, ammetto
Guarda, anche nel piatto è difficile trovare il compositore. Nel piatto è come le note. Si accende. Le note messe in un certo modo fanno la musica, se non sono disposte in quel modo non fanno la musica!
Ritrova nella memoria una citazione di Massimo Mila, lo storico della musica, che lo entusiasma, e che lui applica alla cucina:
“Non solo rumore, ma non ancora musica”. È bella eh? La musica non è solo suoni. Anche la cucina non è solo sapori, è tempo, memoria.
D’accordo. Tecnica e idea. Non tutti i piatti, non tutte le cucine sono… musica.
L’arte non è perfezione. Molti piatti sono perfetti, per cottura, acidità consistenze, ma senti che manca l’idea.
Cambiando tema, cosa ne pensi delle possibilità offerte dalla cucina molecolare?
Una volta ero da Illy a Trieste, ed Ernesto Illy, che ora è scomparso, mi disse: voi cuochi siete dei chimici dell’intuizione. È una frase che ripeto spesso. Me ne sono anche servito quando ho scritto: Qui si fa cucina: chimica intuitiva. Comunque, i cuochi devono stare attenti, il futuro della cucina è nell’industria. Questo lo disse Bernard Loiseau. La sai la storia, quel cuoco che poi si suicidò. I cuochi dell’industria sono troppo più bravi.
Parliamo del progetto di internazionalizzazione della cucina italiana. Tu cosa ne pensi?
Mi fa un po’ paura il termine, dice – fa fatica anche a pronunciarlo -. Io sono per dare metodo, tecnica per fare eseguire bene le ricette regionali della cucina italiana. Non vogliamo internazionalizzare la cucina italiana ma farla conoscere per quello che è. Ma, anche qui, la facciamo conoscere solo se abbiamo professionalità. Io sono per il microclima. Dove nascono i prodotti nascono anche le ricette. Bisogna dare valore alla cucina attraverso la regionalità. Fare una cucina italiana internazionale.
Squilla il portatile, è un giovane cuoco, Gianluca Branca, che Marchesi deve incontrare per il ristorante di Erbusco, dice che sta arrivando. Intanto Arturo, l’elettricista, ha scoperto che una lampada che avrebbe dovuto montare liberata dall’imballo era rotta. Tornerà. Intanto la lampada verrà via con noi riavvolta in una tovaglia. È arrivato lo chef. Ci scusi? Mi chiede Gualtiero. Naturalmente.
Mi allontano e mi guardo un po’ in giro. In un cartone sul pavimento vedo dei libri, ne tiro su qualcuno, sono vecchi ricettari, manuali, saggi sulla cucina – so della passione di Marchesi di raccogliere testi di gastronomia – mi segno qualche titolo che non ho, che conoscevo e che forse mi piacerebbe avere.
Il colloquio è stato breve, ripartiamo tutti e tre per fare ritorno al Marchesino.
È ora di pranzo e ci viene apparecchiato un tavolo. A noi si aggiunge Federico Dandolo, marito di Simona, una delle figlie di Gualtiero, che qui svolge la funzione di amministratore delegato. A dirigere la cucina è un capace trentenne, Daniel Canzian, di Conegliano Veneto, arrivato da Marchesi tre anni fa, dopo essere passato dalle cucine del Dolada di Enzo de Prà e del Gellius di Oderzo. Corti e friabilissimi grissini e deliziosi piccoli pani in tavola accompagnano un assaggio della cucina del Marchesino, dove anche in una amatriciana si riconosce la pulizia ed il rigore del Maestro. Al nostro tavolo s’affaccia un collega, anche lui ha un appuntamento con Gualtiero. Ci salutiamo ed io rimango a scambiare due parole con Federico Dandolo. Mi sorride parlando del suo lavoro: grato, ingrato, che comunque va fatto, e si descrive come colui che tiene i conti perché il Maestro possa continuare a divertirsi.