Pandora Anwyl è stata uno dei broker più importanti degli anni ’80 e ’90 per il mercato americano del vino. Grazie a lei molti vini italiani e tanti altri provenienti dalle principali regioni vinicole europee si sono ritagliati un ruolo importante nel mercato distributivo americano permettendo all’Italia di essere conosciuta maggiormente sotto il profilo enologico.
Pandora, dagli anni Ottanta a oggi, come è cambiato il mercato negli Stati Uniti?
Ho iniziato la mia avventura negli anni ’80 e l’intermediazione era molto differente da quella di oggi; tante cose effettivamente sono cambiate.
Tutto è partito da un piccolo distributore “boutique” di Washington DC. Vendevo vini che si affacciavano per la prima volta sul mercato, molti di questi provenivano dalla California: Schafer, Corson, Spottswoode e tanti altri.
Altri vini invece provenivano dall’Italia e dalla Francia e per lo più erano vini inesistenti sul mercato americano.
I vini californiani all’epoca attraversavano un momento di grande richiesta sul mercato, stavano nascendo tante nuove aziende e i numeri non erano così importanti come adesso.
Gli standard ovviamente erano ancora i vini del vecchio mondo.
Negli anni ‘70 tante multinazionali, molte non del settore, stavano investendo nel mondo del vino soprattutto in California, come ad esempio Nestlé e Coca-Cola.
Anche i francesi erano molto interessati alle potenzialità di queste terre; Opus One e Dominus, infatti, erano di proprietà di famiglie produttrici di vini francesi, così come investirono anche i giapponesi in alcuni casi.
I vini californiani erano facili per il mercato statunitense: nomi riconoscibili, zone e famiglie che certificavano la provenienza e le denominazioni – spesso date dalle uve utilizzate – facilmente traducibili in etichetta.
Ben più complicato era tradurre la provenienza, le uve e la geografia di un vino proveniente dall’Italia.
Per esempio, un Vino Nobile di Montepulciano o un Brunnello di Montalcino erano sì vini conosciuti, ma a quel tempo erano anche abbastanza misteriosi per il consumatore americano.
Gli americani erano pronti a credere nei loro vini, soprattutto quelli californiani, dove i prezzi erano molto più accessibili. Negli anni ’90 le quotazioni, grazie anche alla critica mondiale, sono aumentate notevolmente creando una certa barriera. Dal punto di vista del distributore, i vini californiani erano molto più semplici per il mercato americano e offrivano molti vantaggi: facili da bere, partner di marketing geograficamente più vicini e, soprattutto, stessa lingua.
I vini californiani, inoltre, erano facili per il palato americano perché tendevano a essere più fruttati, con minor acidità e tannini, meno aggressivi rispetto ai loro omologhi europei.
Ricordiamoci che gli americani all’epoca, ma ancora adesso, consumavano vino prima di cena e soprattutto senza abbinare cibo, differentemente dal consumatore europeo dove una cultura eno-gastronomica ben più complessa della nostra ha portato nel corso del tempo a una simbiosi cibo-vino.
Questo ha ovviamente modellato lo stile di questi vini che, insieme alla nascente critica americana, ha influito su buona parte dei vini prodotti nel mondo anche grazie al potere di acquisto del mercato statunitense.
Si producevano vini in base alla richiesta del consumatore finale in stretta collaborazione con la critica e i distributori che indicavano la giusta via per ottenere un successo commerciale.
Era un altro mondo, non esistevano tante cantine quante ne esistono oggi e spesso erano a gestione familiare. Non erano promosse sui social media o con la pubblicità televisiva; le persone avevano un ruolo veramente significativo.
I social oggi hanno sostituito una parte fondamentale del mercato di allora: ricordo perfettamente la cura con cui proprietari e i rappresentanti ringraziavano personalmente gli acquirenti e scrivevano loro per le occasioni come compleanni o anniversari.
I distributori all’epoca erano disposti a dare un’opportunità a cantine anche sconosciute; la scelta distributiva viveva anche di rapporti personali con il proprietario della cantina.
I consumatori erano abituati a bere più che altro vini europei, ma erano curiosi di quello che stava accadendo, per esempio, in California e dedicavano ampio spazio ai vini americani.
La cosa che più mi manca è senz’altro la trattativa che finiva con una stretta di mano; attraverso questo modo di lavorare sono stati costruiti tanti marchi oggi molto noti e importanti.
Pensi che il mestiere del broker sia ancora fondamentale per far conoscere negli Stati Uniti i tanti vini italiani a voi ancora sconosciuti?
Senza la presenza sul mercato è praticamente impossibile per i nuovi vini essere debitamente introdotti e venduti.
Alcuni importatori hanno persone specifiche sul campo, ma pochi possono permettersene una in ogni Stato.
Le grandi aziende vinicole assorbono la maggior parte del tempo dedicato alla vendita di un distributore, sono quasi tenute in ostaggio.
Offrono il massimo profitto, hanno importanti budget di marketing e di comunicazione rivolti al mercato e, ovviamente, pretendono.
Esiste una regola negli Stati Uniti, quella dell’80/20 che significa che la maggior parte del profitto proviene dal solo 20% dei fornitori che ottengono l’80% dell’attenzione, lasciando solo il 20% a tutte le altre aziende vendute da un distributore. Inutile dire che è proibitivo per le aziende vinicole avere i propri rappresentanti in ogni Stato, anche se molti hanno rappresentanti regionali che coprono 5-8 Stati.
Non solo è un investimento enorme, soprattutto per una piccola azienda vinicola indipendente, ma un broker con 25 marchi è più influente su un distributore rispetto a un singolo rappresentante della cantina.
I distributori sono ancora più importanti quando si parla di formazione: l’introduzione di nuove uve, tipologie e regioni richiede tempo e perseveranza.
Avendo introdotto i vini da tavola “Douro” nel mercato statunitense, ho una grande esperienza in tal senso. È difficile richiedere alle cantine una presenza costante per formare sempre di più i distributori, anche se sarebbe fondamentale perché il mercato va educato in tal senso, soprattutto il consumatore finale oltre ai punti vendita.
L’introduzione delle nuove DO senza un supporto locale è praticamente impossibile nel mercato iper-competitivo che troviamo oggi.
Quanto è ancora importante il vino italiano negli Stati Uniti?
Quando negli anni ’60 New York stava diventando quella di adesso, ogni ristorante sulla costa orientale aveva un Chianti nella sua lista indipendentemente dal tipo di cibo servito.
Lentamente la California e altri nuovi vini del mondo hanno spinto la maggior parte dei vini europei fuori dalle carte enologiche.
Molti americani non sono mai stati realmente aggiornati e hanno ancora un’idea di un’Italia vinicola che non esiste più, quella del Chianti prodotto in fiaschetta di paglia.
Gli immigrati italiani hanno aiutato a sviluppare questo Paese sotto un profilo eno-gastronomico e il vino, in quanto espressione culturale e artistica, è una parte importante del loro patrimonio e quindi di questo Paese.
Vorrei che più vini italiani di diverse denominazioni fossero disponibili al di fuori dei ristoranti di cucina italiana per incoraggiare una maggiore sperimentazione da parte del consumatore.
Il Pinot Grigio è ben noto in questo paese, ma Pagadebit – per esempio – attira sguardi vuoti anche da parte di molti sommelier.