Food designer e ingegnere culinario per autodefinizione.
Davide Scabin, figlio di un camionista e di una cuoca, è nato a Rivoli, presso Torino, il 9 settembre 1965, e lì abita tuttora. Dall’età di 10 anni ha vissuto ogni giorno in cucina, prima in casa e poi alla scuola alberghiera. Dopo un breve periodo speso come rappresentante di cosmetici, nel 1993 apre il suo primo ristorante “Combal” ad Almese, in collaborazione con la sorella minore Barbara e con Milena Pozzi, tuttora sue socie.
Nel 2002 ha trasferito il ristorante, che adesso si chiama “Combal.Zero”, in un castello del tredicesimo secolo a Rivoli, sito all’interno del Museo di Arte Contemporanea.
“Combal.Zero”, con una veduta mozzafiato sulla città di Torino, è il primo ristorante stellato in un museo italiano. Vanta due stelle Michelin, tre forchette del Gambero Rosso, tre cappelli (punteggio 18.5) de L’Espresso e l’inserimento al 28esimo posto nella lista del San Pellegrino World’s Best Restaurants 2011, sette posti avanti rispetto all’anno precedente. Lucy Gordan, la nostra inviata speciale, ha incontrato Scabin per la prima volta a IdentitàGolose 2012 a Milano, dove lui è un habituè, per noi disponibile e spiritoso.
A quando risalgono le sue prime impressioni sul cibo?
All’infanzia, con un nonno e una nonna che cucinavano molto bene, ma che litigavano ogni sabato. Il mio nonno materno era ferrarese e la mia nonna materna piemontese: litigavano per decidere chi avrebbe fatto la pasta e chi invece il ripieno per gli agnolotti o “caplit” del pranzo della domenica. Poi, nel tempo, si sono messi d’accordo: mia nonna, da piemontese, faceva il ripieno e mio nonno, da ferrarese, faceva la sfoglia. Ricordo che il nonno mi sgridava se mangiavo il pane con la pasta. Diceva che non era elegante e chi avesse avuto quest’abitudine non avrebbe mai fatto soldi.
Da lì è nato il Suo amore per la cucina?
Sì, anche per una ragione di carattere pratico: mia madre, quando avevo dieci anni, aveva ripreso a lavorare e quindi per me i ricordi legati al cibo sono, oltre che riconducibili ai nonni, anche a piatti che preparavo io per mia sorella e per mia madre quando tornavano dalla scuola e dal lavoro: dalla pasta al pomodoro o in bianco, alla cottoletta alla milanese, alle patate… E ora mia sorella Barbara, più piccola di me di quattro anni, collabora in cucina con me.
Cosa significa “Combal.zero”?
In dialetto piemontese vuol dire conca…avvallamento… Il mio primo ristorante “Combal” era situato ad Almese, in provincia di Torino, e la valle dove era situato il paese era appunto una conca. Ho aggiunto lo zero una volta traslocati a Rivoli…per indicare la ripartenza!
La Sua filosofia culinaria?
È semplice. Non è cambiata ma si è solo evoluta in un modo nemmeno percettibile al pubblico. Prima al “Combal” vedevi dei prototipi con cui magari dovevi interagire, invece adesso è il design a prevalere su tutto già a partire dalla cucina. Un design di sistema, per avere il controllo dei gusti primari, per individuarli e percepirli: oggi quindi propongo delle cose che sono tornate ad essere immediatamente tangibili. Per esempio, una piadina ripiena di pasta è tangibile. Il grosso cambiamento sta nel fatto che non si vede più nel piatto tutto quello che lo studio di design ha fatto alle spalle. La progettazione, intesa come lavoro propedeutico, è meno percettibile di prima. Magari prima c’era un packaging, c’era un interazione obbligatoria tra il commensale e il piatto, mentre adesso lo studio di design, quindi di progetto, rimane in cucina e al cliente si trasferisce solo la trasformazione finale.
Il primo chef italiano ad avere l’idea del design è stato Gualtiero Marchesi. Il suo concept è diverso?
Non lo so, secondo me il “Maestro” ha sempre avuto uno stampo artistico. I paragoni che ho sentito fare da lui sono stati quelli riguardanti la musica o l’espressione pittorica. Io ho sempre parlato di progetto e di design non intesi come aspetti estetici, bensì come ergonomia e funzionalità all’interno del piatto.
Quindi qual è la sua forma d’arte preferita?
L’architettura. Per la costruzione ideologica-contenutistica dell’intero progetto.
Come definerebbe la Sua cucina?
Una cucina di ricerca ispirata dal libro di Bruno Munari “Da Cosa Nasce Cosa”: una cucina in contiua evoluzione, innovativa, provocatoria, perfezionista, capace di ragionare, far ragionare e stupire.
Le Sue specialtà?
Sinceramente non ho una specialità. I miei studi culinari sono orientati alla produzione di un sistema di controllo generale, adatto alla costruzione di ogni mio piatto.
Nei tre anni (2008-2011) in cui si è preso una pausa, come ha passato le giornate, leggendo o viaggiando?
Sono sempre stato in cucina. Ho preso tre anni sabbatici rispetto all’esposizione mediatica e ai congressi. Io sono stato sempre al ristorante: a me la vita non è cambiata più di tanto.
Quest’anno a IdentitàGolose ha provocatoriamente intitolato il suo intervento “Oltre il mercato c’è la testa dello chef, ovvero non tutto è natura” e ha presentato tre piatti che ha chiamato “Pasta Warriors”. Ci può descrivere queste tre invenzioni?
Il primo è una piadina/tacos ripiena di pasta in salsa arrabiata stile tex mex, con burrata e pane ripassato in padella. La seconda è una pasticca di spaghettoni precotti, che tengono la cottura perché lessati per il 70% in infusione e raffreddati nell’olio prima della cristallizzazione. Impiattati con un bicchiere di buon brodo e una manciata di verdure essicate, forniscono una “zuppa espressa da manicomio”, che rispolvera l’irriverenza dei ravioli shake. Ultimo warrior, per k.o. definitivo al videogame, le penne cotte condite con pecorino e pepe nero da spruzzare al bancone, con tubetti a forma di ketchup ripieni di amatriciana, pesto e carbonara della casa. Esercizi pop da parte dell’Alighieri di un nuovo volgare culinario.
Lei definisce la pasta il “fast food” italiano, che si potrebbe comprare e mangiare per strada. Qual è la differenza tra “fast food” e “street food”?
Non c’è troppa differenza: cambia soltanto la location dove viene servito e la scomodità dello “street food” che normalmente non ha un’ergonomia, una sua tecnologia di consumo sviluppata. C’è ancora molto da fare in quel campo.
Che ne dice dei due chef famosi, uno tedesco e uno italiano, che hanno inventato dei piatti per McDonalds? Secondo Lei lo fanno soltanto per motivi economici o per sembrare moderni, o questo fa anche parte della filosofia di cui abbiamo parlato?
Non fa parte della mia filosofia, come anche gridare allo scandalo davanti a queste scelte, perché comunque occorre ricordare che è necessario comunicare con i grandi numeri.
Per comunicare con i grandi numeri Lei vorrebbe avere un programma televisivo tutto suo o soltanto fare ogni tanto delle comparsate sui programmi degli altri per spiegare la sua filosofia?
Lei mi ha fatto una bella domanda. È da molto che manco dai canali televisivi, sui channels gastronomici. Probabilmente ritornerò quest’anno, ma se ci torno, è perché avrò un mio programma. Ho intenzione di avere un format mio e non saltare qua e là pur di comparire.
Ama viaggiare o lo fa soltanto con la fantasia?
Guardi, io per tanto tempo sono rimasto fermo in un posto di provincia. Sono torinese. Come un altro torinese molto famoso che ha scritto romanzi di viaggio senza essersi mai spostato. Salgari ha scritto Sandokan rimanendo fermo a Torino. Io dico che oggi il mondo con internet si è ristretto. Mi piace viaggiare, ma non per forza. Mi piace viaggiare bene, il che non è necessariamente sinonimo di “lusso” .
Non ha mai scritto un libro che spiega le sue progettazioni?
No, non ho mai scritto un libro perché devo ancora imparare e capire tante cose prima di scrivere. Comunque ho collaborato con altri cinque chef: Massimo Bottura, Moreno Cedroni, Paolo Lopriore, Enrico Crippa e Carlo Cracco, nella pubblicazione di un bellissimo libro intitolato “6”, firmato da Alessandra Meldolesi con fotografia e grafica di Bob Noto, un torinese DOC come me. Questo libro, colletivo e ironico, pubblicato da Cucina & Vini nel 2008, è un autoritratto della cucina italiana d’avanguardia. Nello stesso anno ho brevettato lo “Scabin Salt System”, un sistema scientifico per la salatura dei piatti mediante una pastique, in modo da non lasciare spazio alla distrazione dello chef.
Quali sono i suoi piatti preferiti?
Le zuppe: sia cucinarle che mangiarle.
E la pasta?
La pasta è un veicolo per gustare il sugo fatto con le nostre materie prime. Uso la pasta come un designer davanti ad un prodotto nuovo. La uso per inventare qualcosa di ancora diverso. Riconosco, comunque, che la pasta è un prodotto totalmente nostrano. È la nostra immagine nel mondo, il non plus ultra del “Made in Italy”. Ci rappresenta. In Italia “fast food” significa qualcosa di non buono, di non salubre, qualcosa di scarsa qualità. Invece la pasta è il nostro “fast food” anche se non ce ne siamo mai accorti. In 10, 15 minuti con la pasta si può creare un capolavoro culinario secondo l’idea del “fast good” coniata da Ferran Adrià. Nel mondo il cibo italiano è il numero uno, ma noi abbiamo il dovere di far conoscere a più persone possibili il cibo “Made in Italy” autentico. Quando ero ragazzo, andava di moda la cucina francese. Poi la Spagna, soprattutto con i suoi chef baschi, ci ha superato. Adesso con l’esordio di Redzepi, giudicato lo chef no. 1 nel mondo, è il momento della cucina nordica. La prossima sarà la cucina peruviana, che ci supererà, se non ci diamo una mossa e non modernizziamo il nostro stile.
Un piatto che non Le piace?
Ci sono due spezie che non amo per niente. Una è la curcuma e l’altra è il cumino. Quindi per i piatti che richiedono queste due spezie, anche se sono dei grandissimi piatti, io ho un’avversione.
I Suoi vini preferiti?
Bolle. Bianco tardivo.
Gli chef sono noti per avere collezioni di moto, di macchine veloci, o di orologi. E Lei?
Mi piacerebbe fare collezioni, in generale, ma non ne ho quasi mai avuto il tempo, anche se sono un grande collezionista di sigari.
Crede nei giudizi delle guide?
La mia opinione delle guide è quella comune: servono, ci devono essere, logicamente ci sono errori come in tutte le cose, però sono importanti. Il resto sono polemiche.
Altri chef che ammira?
Praticamente tutti i colleghi italiani e alcuni nel mondo. Però se mi metto a fare dei nomi, magari faccio delle ingiustizie a qualcuno.
Se non fossero diventati chef, Heinz Beck avrebbe voluto fare il pittore e Gualtiero Marchesi il pianista; invece Cesare Casella aveva la professione dello chef nel sangue. E Lei?
L’hacker o il fotografo.
Le ho sentito menzionare tante volte nei suoi discorsi qui a IdentitàGolose la Fifth Avenue a New York. È la sua strada preferita nel mondo?
In questo momento sì perché la mia compagna è molto innamorata di New York, di Manhattan e di tutto quello che è connesso a quella piccolissima lingua di terra.
Non ha mai pensato, come tantissimi chef, di aprire un ristorante lontano da casa?
Sì, ci ho pensato ma non è ancora successo. Non è detto che non accada, ma non posso darle degli scoops in questo senso…