La pandemia ha fatto traballare la ristorazione, provocando in alcune realtà e settori un vero terremoto. Il paradigma è cambiato totalmente: nuove visioni in cucina che declinano verso formule più smart, più veloci, più familiari; nuovi approcci da parte del cliente che rimane fedele nelle grandi città al servizio delivery; schemi lavorativi interni completamente messi in discussione. E quest’ultimo punto ha generato una vera e propria “caccia al tesoro” di personale qualificato.
La riscoperta del tempo e di come spenderlo al di fuori di un ristorante da parte dei dipendenti è un punto fondamentale della questione, ma è altrettanto doveroso definire, quasi in una sorta di assioma, la ristorazione come un lavoro alimentato dalla passione estrema e che si basa su un compromesso esistenziale.
Lavorare in un ristorante non è lavorare in ufficio. Non ha orari fissi, weekend liberi e festività.
La festa degli altri coincide il più delle volte con il lavoro del cuoco, del cameriere e del personale.
Se così non fosse, non esisterebbe il piacere di andare a mangiare fuori nel tempo libero e verrebbe meno anche il suo motore economico.
Se il compromesso saltasse, il commensale perderebbe le sue coordinate, le sue certezze.
Ciò premesso, passiamo ad alcune interviste rivolte a professionisti del settore e a docenti, partendo da una riflessione lanciata sul web e legata alla domanda: “Siamo sicuri che offrendo stipendi molto sostanziosi ai giovani di oggi, questi accettino di entrare nella ristorazione? Saranno in grado di garantire elevate doti di professionalità in questo comparto o vedremo nei prossimi anni un declino della ristorazione?”
A innescare la miccia è stato Michele Ruperto, premiato nel 2022 come miglior sommelier calabrese, e imprenditore digitale con Calabriagourmet.com, che ha vinto il premio come “miglior storytelling del beverage online italiano 2023”.
Lui è uno che non fa del facile opinionismo, ma che parla di gavetta e sacrificio con cognizione di causa, per esperienza vissuta: con un certo realismo “drammatico” ipotizza anni duri per la ristorazione del futuro e una rivoluzione totale nel concetto stesso di servizio e ospitalità. “La gavetta non appartiene più ai giovani. Si è rotto l’incantesimo, o meglio quell’incastro “intellettuale” e quella convergenza di interessi che c’erano una volta tra chi voleva lavorare in sala e/o cucina e il ristoratore che doveva assumere. Una volta, alle prime armi, si accettava di guadagnare poco perché in cambio, oltre ai soldi, s’imparava un mestiere. Oggi – conclude Ruperto – ho come l’impressione che di conoscere un mestiere non interessi più a nessuno. Tutto si basa sull’affermazione: il lavoro è lavoro e va pagato bene”.
Sia chiaro che con i termini di “sacrificio” o “gavetta” Ruperto non vuole intendere sfruttamento del personale sottopagato, ma la libera scelta di un percorso di lavoro, formazione e apprendistato, riconosciuto economicamente, da vivere anche con la giusta umiltà.
L’umiltà di chi ha fame di imparare a fare un mestiere per cui ha passione, con la volontà di mettersi alla prova in più campi per capire come funziona la ristorazione al suo interno e dove si è più performanti, più bravi. Solo con l’umiltà si impara e prima delle generazioni zeta lo sapevamo un po’ tutti.
“Estate 1999: la mia prima stagione nell’alta ristorazione presso l’allora 5 stelle lusso San Michele di Cetraro (CS) – ci racconta il sommelier calabrese –. Ho pulito pavimenti, lucidato posate d’argento, stirato il tovagliato, asciugato bicchieri, notte e giorno, occupandomi di tutto quello che c’è dietro al servizio in sala. Preparavo l’artiglieria, ma non ero io a scendere in campo per combattere: avvicinarmi al tavolo dei clienti non mi era concesso, potevo solo guardare. Solo alla fine della stagione sono riuscito ad avere il mio posto in sala per servire acqua e pane”.
E oggi?
Secondo Ruperto – e a dirlo non è solo lui, basta chiedere a tanti ristoratori alla ricerca di personale – pare che gli stipendi e gli orari attuali non stimolino più ad entrare in questo mondo che presuppone pur sempre un lavoro di sacrificio, sostantivo che sembra non più appartenere al vocabolario dei giovani di oggi.
“Mi spiego meglio: – sottolinea Michele Ruperto – oggi si esce dalle scuole o dai corsi di specializzazione e ci si sente subito esperti di comunicazione, di vino e di servizio in sala, senza magari aver mai messo piede in una sala che conta. Oggi si tende a non voler accettare le regole, a essere solo contraddittori, a non rispettare le gerarchie. Ma non basta fare un corso per avere esperienza: quella vera la si costruisce concretamente sul campo, gestendo persone e situazioni. Ed è proprio questa la gavetta che va fatta se si vuole essere professionisti consapevoli, gavetta formativa che va sicuramente pagata in modo adeguato (riconoscendo con questo che gli stipendi non sono idonei a ruoli e orari)”.
Da qui si capisce perché, sempre più spesso, manca personale qualificato nella ristorazione che conta e non si avverte più quel senso di squadra e di appartenenza al posto di lavoro, in cui crescere insieme.
E, come conclude Ruperto: “La ristorazione è fatta di uomini e donne, senza, non può esistere. Maggiore sarà l’assenza di qualità umana sul campo, maggiori saranno le probabilità che la Grande Ristorazione diventi, tra qualche anno, un ricordo di un tempo passato. Perché la qualità è frutto della competenza e della conoscenza. E poi occorre anche una buona dose di ossessione”.
Devono cambiare i sistemi gestionali
Lo dice con profonda convinzione anche Piero Pompili, maître di sala e restaurant manager de Al Cambio a Bologna: “È proprio l’ossessione l’ingrediente principale che spinge qualsiasi persona ad eccellere nel proprio lavoro. Il mondo della ristorazione è pieno di gente che lavora, ma coloro che sono diventati punti di riferimento sono proprio quelli che hanno fatto della propria ossessione, unita alla voglia di riuscire e allo spirito di sacrificio, una filosofia di vita che li alimenta e li porta in alto”.
Anche il maître bolognese ha una storia lavorativa iniziata presto e partita dal basso, una lunga gavetta che, come fa intuire, in questo lavoro non sembra mai terminare: “Ho 48 anni, ho iniziato a servire a tavola a 13, dopo aver conseguito la terza media, con le prime stagioni estive al mare. Nonostante siano passati 35 anni, ancora oggi non mi sento “preparato” perché in questo mondo c’è un bisogno continuo di crescere e aggiornarsi, soprattutto se si vuole restare sulla cresta dell’onda. Oggi, invece, per un giovane è sufficiente aver fatto un paio di stage per sentirsi “un fenomeno” nella gestione di sala e cucina. Purtroppo non funziona così.
C’è da dire anche – aggiunge il direttore de Al Cambio – che oggi ci sono sempre meno giovani disposti ad affrontare un certo percorso professionale investendo tempo e risorse, come abbiamo fatto io e la mia generazione, in quanto non accettano i meccanismi infernali della ristorazione (e non mi sento di dargli totalmente torto). A mio avviso questo cambiamento di mentalità, già in atto da qualche anno, porterà alla fine della ristorazione per come l’abbiamo finora disegnata, lasciando spazio a un nuovo modo di fare cucina e ospitalità.
Pensate che le esigenze che oggi hanno in tanti, per me erano priorità già 7 anni fa, e questo mi ha sempre facilitato nella ricerca del personale.
Da questo punto di vista mi sono dunque sentito un ristoratore lungimirante: tra il 2017 e 2019 avevo sollevato sulla stampa il tema della sostenibilità per le persone che lavoravano al ristorante, affermando che bisognava trovare nuove regole ed equilibri per portare avanti realtà di successo.
La pandemia poi mi ha dato ragione.
Per noi, Al Cambio, lavorare 8 ore, con la domenica chiusa, con orari stabiliti da noi e non dalle prenotazioni dell’ultimo momento, con ferie e festività rispettate, sono una regola e sono anche più che realistiche per gestire un ristorante di successo. Un successo che non significa riconoscimenti da parte delle guide o premi, bensì il benessere economico e sociale della nostra insegna”.
Dobbiamo guardare, dunque, in faccia la realtà e non continuare a portare avanti stereotipi superati?
Dobbiamo convincerci ad accogliere nuovi approcci formativi e lavorativi come qualcosa di positivo e non come elemento di crisi e di peggioramento?
Sicuramente le generazioni sono cambiate, come è logico che accada, e i nostri giovani forse non hanno e non avranno lo stesso spirito di sacrificio di chi c’è stato prima di loro e di noi, ma la colpa di chi è?
“Non possiamo condannare le nuove generazioni per questo, – replica Pompili – già la mia generazione non aveva lo stesso spirito di sacrificio dei nostri genitori, che sono stati per noi un solido aiuto economico, mentre con il costo della vita attuale fare gavetta diventa quasi un lusso. E allora bisogna, da una parte, dare un adeguato valore economico e sociale, e, dall’altra, mettere il giusto impegno e quella sana ossessione che serve per riuscire al meglio”.
Il quadro che viene fuori parlando con chi si confronta quotidianamente con la ricerca di personale – e accade in tanti comparti – è che si vive una realtà alterata dal mondo social che racconta successo, lusso, celebrità: una vita facile da vivere e da costruire, con promesse di lavori poco impegnativi e con grandi ritorni economici.
Ma, come si sa, non è tutto oro quello che luccica e non bastano nemmeno i modelli propinati da influencer o dai tanti cooking talent show televisivi, come spinta motivazionale.
Non generalizziamo: non è così per tutti, ovviamente, anche se da quanto ci confermano alcuni docenti degli Istituti Alberghieri e datori di lavoro, l’approccio diffuso tende a essere proprio questo.
Ricerca del personale: occorre trovare un punto d’incontro
Abbiamo chiesto a Patrizia Forlin, docente di cucina presso l’Istituto Professionale Maffeo Pantaleone di Frascati, di indicarci qual è il sentiment di chi domani dovrebbe lavorare in un ristorante.
“Ci sono tanti ragazzi che hanno voglia di imparare perché hanno fatto una scelta fondata: la passione e l’interesse li riconosci subito in aula dalla disponibilità, dall’impegno, dalla curiosità che hanno verso la materia. Poi ci sono altri che non hanno motivazione alcuna, che hanno scelto questo percorso di studi pensando sia più facile di altri e come scorciatoia per il diploma”.
E continua: “Quello che percepisco confrontandomi quotidianamente con gli studenti è che c’è un cambio netto di mentalità, un approccio completamente differente rispetto solo a qualche anno fa. C’è poca disponibilità o impegno nei confronti del lavoro, c’è mancanza di responsabilità. Quando proponiamo dei lavori o degli stage, nessuno si offre con entusiasmo, nessuno ha intenzione di cimentarsi con l’esperienza lavorativa.
L’altra faccia della medaglia è fatta da coloro che, invece, complici i social, vogliono fare gli influencer della ristorazione, fare insomma qualcosa dove guadagnare tanto, subito, lavorando poco. Perché questo è quello che pensano guardando Tik Tok o Instagram, dove tutto è facile, immediato, spettacolarizzato.
Un esempio? Capita, durante i laboratori di cucina, di trovare ragazzi che si cimentano in ricette e prove, magari facendo cose completamente diverse da come le abbiamo spiegate in classe e giustificano l’eventuale errore dicendo “ l’ho vista fare on line”. Ecco, noi professori veniamo bypassati dai tiktoker che si cimentano ai fornelli”.
Di conseguenza ci sono professori, soprattutto al sud, come ci ha raccontato Michele Ruperto, che hanno abbandonato le loro classi perché si sono sentiti impotenti e frustrati davanti a ragazzi che non hanno passione, che si iscrivono agli IPSEOA come alternativa forzata per ottenere un diploma. Nei piccoli centri, nelle periferie, si aggiunge poi anche la piaga sociale della delinquenza e della maleducazione diffusa.
“Ho come l’impressione che i giovani di oggi vivano un altro mondo – conclude Patrizia Forlin – e noi come docenti abbiamo il compito di far capire loro che la realtà della ristorazione è tutt’altro rispetto a quello che passa nelle storie sui loro smartphone. La loro curiosità non viene alimentata, non va oltre a quello che vedono: guardano, scorrono rapidamente, non si fermano a pensare, non approfondiscono.
E questa visione semplicistica della realtà implica assenza di impegno e comporta un problema che non è solo della ristorazione del domani, ma più in generale del vivere sociale, che abbraccia le nuove generazioni e che è già in atto. Non c’è bisogno di aspettare dieci anni per assistere al declino della qualità ristorativa. Bisogna dunque agire subito trovando dei punti d’incontro attraverso un cambio vero di direzione sia da parte delle scuole e delle aziende, che dei futuri professionisti”.
Alla luce di ciò ritorna la domanda iniziale: ci troviamo dunque di fronte a una generazione “meno competente”, che mette a rischio il futuro della ristorazione nella sua qualità?
Esiste anche un’altra questione spinosa: la necessaria quantità di addetti impiegati in questo settore. Perché un ristorante, senza il numero necessario di personale disposto a lavorare, è destinato a chiudere: possiamo addirittura prevedere che già nel nuovo decennio molti avranno abbandonato proprio per mancanza di personale.
E secondo lo scenario previsto da Piero Pompili: “Il personale competente, quello capace di portare un valore aggiunto al ristorante, sarà pagato a peso d’oro, rimanendo così appannaggio di pochi locali eletti; la ristorazione di massa dovrà evolvere e cambiare, mentre quella luxury continuerà ad esserci con dipendenti strapagati e scontrini finali sempre più cari”.
E quasi a voler dar ragione alla visione futuristica “per soli ricchi” di Pompili, c’è la cronaca della scorsa estate: gli stipendi dei camerieri (introvabili), in Svizzera, sul lago di Zurigo, sono arrivati a superare i 17 mila euro al mese, mance escluse. È successo in due catene di locali, che hanno ricalcolato gli stipendi sul giro d’affari di una stagione boom, secondo un’opzione prevista dal contratto nazionale. In questo modo i camerieri hanno ricevuto il 7-8% dell’incasso totale del mese, al netto dell’IVA. La motivazione di questo sproposito è stata l’impossibilità di reperire manodopera per i loro sedici locali, problematica affrontata con una strategia cosiddetta di “upselling”.
Può essere questa la soluzione alla mancanza di personale, rischiando di distorcere il mercato e per di più senza garantire competenza e qualità?
[Questo articolo è tratto dal numero di novembre-dicembre 2023 de La Madia Travelfood. Puoi acquistare una copia digitale nello sfoglia online oppure sottoscrivere un abbonamento per ricevere ogni due mesi la rivista cartacea]