Il dehors del ristorante Il Buco – una stella Michelin nel cuore di Sorrento – non è soltanto (traducendo dal francese) il “di fuori” del celebrato ristorante di Giuseppe Aversa, ma è toponomasticamente la scalinatella che conduce dritta verso il porto. Abbiamo voluto partire proprio da qui, dai gradoni che ospitano i tavoli di questo piccolo tempio della buona cucina campana, per rappresentare lo stretto rapporto che intercorre tra chi ama profondamente il mare, tanto da volerlo vivere con una barca, e la cucina che dal mare trae la sua principale fonte di ispirazione.
La relazione è tanto più intensa quanto più è radicata la convinzione che il piacere della nautica sia strettamente correlato al benessere che la cucina di pesce può fornire.
Ecco perché ci è sembrato naturale ricostruire idealmente questo binomio attraverso due sorrentini doc che rappresentano da un lato le barche, ovvero il maestro Cataldo Aprea, all’altro il cibo, vale a dire, appunto, lo chef patron de Il Buco, Giuseppe Aversa.
Dire “barche”, nel caso dell’azienda Apreamare, è quantomeno riduttivo perché da qui provengono i gozzi più ambiti al mondo, costruiti da quei maestri d’ascia che fin dal 1849 hanno fatto la differenza nella realizzazione di opere artigianali di altissimo livello: nei vecchi cantieri navali della Penisola Sorrentina è ancora possibile ammirare intere pareti ricoperte di sagome e garbi per la produzione dei vecchi gozzi da pesca, a remi e a vela, che hanno fatto la storia nautica campana.
Si favoleggia del fatto che tutto il bel mondo abbia utilizzato queste mitiche imbarcazioni, da Sofia Loren a Rossellini, da Liz Taylor e Richard Burton a Rudolf Nureyev che ne teneva uno ancorato all’isolotto de Li Galli.
E’ nel secondo dopoguerra che Giovanni Aprea, padre di Cataldo, ebbe l’intuizione di applicare sui gozzi i motori di derivazione automobilistica. Il cantiere della famiglia Aprea inizia così a produrre le prime imbarcazioni per uso diportistico, settore fin da subito prevalente rispetto a quello della pesca professionale.
L’intervista –Cataldo Aprea
Una lunga storia quella della sua azienda…
Sì, la mia famiglia costruisce barche da più di 150 anni, io sono la quarta generazione e mio figlio Giovanni è la quinta. La nostra è una tradizione che si tramanda con orgoglio e passione da secoli di padre in figlio. Io sono stato il più rivoluzionario della famiglia, quello che ha “disobbedito” alle regole ed ha trasformato il gozzo da barca di pescatori a yacht da diporto.
Deve esserne fiero, perché ha scritto la storia nel mondo della nautica.
Ne sono sicuramente fiero e forse anche orgoglioso. Nonostante la mia lunga storia non ho perso l’umiltà, mi piace ancora osservare, migliorare e non smettere mai di innovare. Dicevo che ho convertito il gozzo da barca di pescatori a yacht di lusso, trasformando la carena di legno prima in vetroresina e poi in scafo planante, permettendogli di raggiungere velocità sostenute e di essere sicura e marina in qualunque condizione di mare. Oggi la nostra gamma gozzi conta ben 8 modelli che vanno dal nostro entry level di 32 piedi al 64 dotato anche di fly bridge. Abbiamo voluto dare alla nostra linea gozzi una connotazione più classica, con linee morbide e sinuose, scegliendo essenze che vanno dal mogano alla paglia viennese. Allo stesso tempo, abbiamo preferito essere sempre flessibili nei confronti dei nostri clienti, dando loro la possibilità di customizzare la propria imbarcazione scegliendo diverse essenze di legno o modificando dettagli di lay-out.
Benissimo, ma se non sbaglio oggi, oltre alla gamma gozzi, lei ha anche un’altra linea di imbarcazioni.
Sì, infatti. Nell’ormai lontano 2003, guardandomi intorno nel panorama nautico, non scorgevo nulla di nuovo: le barche sembrava si somigliassero tutte. Allora pensai che toccava a me osare inventando qualcosa di nuovo, così insieme all’arch. Gianni Zuccon mettemmo a punto il primo Maestro, un’imbarcazione fly-bridge dalle linee retrò, con vetrate verticali e interni ampi e luminosi. Fu presto un successo! Oggi la linea conta 3 modelli, un 56, un 66 e un 82 piedi, e in meno di 10 anni ne abbiamo costruite più di 80 unità.
E adesso? Una mente così non penso possa stare a riposo.
Assolutamente no! L’azienda nel corso degli anni ha avuto varie vicissitudini: dopo una parentesi di circa 10 anni nel gruppo Ferretti, siamo entrati da un anno nel gruppo Cose Belle d’Italia, un gruppo italiano del quale abbiamo fin da subito sposato la filosofia, volendo questo salvaguardare le eccellenze del Made in Italy. Oggi sto lavorando ad una serie di progetti di cui non posso ancora svelare i contenuti. Posso solo anticipare che si tratta di un modello grande della linea Maestro ed una rivoluzione nella linea gozzi! Il mio progettista compagno di viaggio in questa nuova avventura è Brunello Acampora della Victory Design.
L’intervista – Giuseppe Aversa
Chef Aversa, si può parlare di “cucina da barca”?
Si deve! La gestione di una cambusa – che è il termine di derivazione olandese (kabuis) con il quale si indica appunto il luogo dove si depositano, si conservano e si lavorano i viveri sulle imbarcazioni in generale – deve essere particolarmente scrupolosa, tant’è che molto spesso si individua una vera e propria figura di kambusiere, ossia di capo.
Il suo ruolo, o comunque il ruolo di una persona incaricata a svolgere questo compito, presuppone dati di razionalità, calma, stile, intelligenza, ordine. Deve infatti avere ben presente le preferenze o le idiosincrasie alimentari di ogni ospite della barca, non dimenticare nulla nella spesa perché quando la barca è al largo, non si può rimediare.
Quindi cosa si deve mettere nella borsa della spesa?
Innanzitutto la borsa stessa, che deve essere biodegradabile, a scanso di problemi, nel rispetto dell’ambiente. Poi prodotti con poco scarto, quindi pesci possibilmente già puliti, verdure magari di quarta gamma, già pronte per l’uso anche se fresche, e carni, se necessario, da cotture veloci.
Oltre che con lo spazio esiguo per stivare le derrate alimentari, bisogna avere dimestichezza con le tempistiche di cottura, che dovrebbero essere circoscritte ad un tempo il più possibile limitato. Naturalmente non devono mancare i prodotti base come olio, aceto, pepe, sale, aromi e spezie.
Il tipo di piatti da proporre?
Quelli improntati a leggerezza, freschezza, semplicità, ma nell’eleganza. La scusa che il cibo da barca deve essere spartano e approssimativo, considerati gli spazi di preparazione e consumo, è anacronistica.
Chi sceglie la barca ama ciò che è bello e dà piacere, quindi di solito apprezza il momento della convivialità da vivere con immediatezza e relax, pur senza approssimazione.
Noi abbiamo scelto alcuni piatti simili a quelli della nostra carta menù proprio per dimostrare che con una buona materia prima e con una tempistica accettabile, la vita a bordo può assumere aspetti conviviali ancora più piacevoli.