1996, 2002: più giovane due stelle e tre stelle della storia Michelin, rispettivamente a 22 e 28 anni. Si fatica a immaginare che traguardi possa ancora tagliare Massimiliano Alajmo, il quale nei suoi primi quarant’anni non ha più scale su cui misurare un processo di perfezionamento, che pure avanza su binari del tutto personali. A partire da un ristorante che si è trasformato man mano in una grande maison dall’atmosfera francese, con la selva fitta delle toques che disegna ordinate coreografie oltre il vetro della cucina, fra arredi recentemente rinnovati. Sempre sulla strada provinciale 11, in una delle location meno allettanti della cucina italiana.
Lo stormo delle Calandre nel frattempo è diventato una flotta: oltre all’adiacente Calandrino, bar pasticceria con ristorazione veloce, al prospiciente Hotel Maccaroni e al Golf Club la Montecchia, dove con papà Erminio si è fatto le ossa Enrico Bartolini, ci sono il ristorante Quadri di Venezia, già stellato, e il nuovo spin-off parigino, il Caffè Stern, tanto che fra uffici e produzioni il numero di dipendenti ha sforato le 200 unità. Massimiliano Alajmo però è inamovibile dalla sua postazione in cucina, da mattina fino a tarda notte. Un esempio di abnegazione con pochi eguali in Italia.
Era tutto già scritto, probabilmente, nella vocazione di un bambino inseparabile dalla divisa di mamma Rita, formidabile scultrice di torte e prima cuoca a conquistare una stella Michelin al ristorante di famiglia. Il 1990 fu l’anno della svolta, con il pellegrinaggio folgorante nei grandi ristoranti francesi, L’Espadon, il Buerehiesel, soprattutto Paul Bocuse, e il desiderio di emulazione condiviso dal fratello Raffaele, per tanti anni sommelier delle Calandre, oggi guida del gruppo. Quindi i lunghi stages da Alfredo Chiocchetti, maestro di passione e di umiltà; Marc Veyrat, estroso ma burbero al punto da farlo quasi fuggire; Michel Guérard, con la sua organizzazione a horlogerie. Dopo di che nel 1994, a soli 20 anni, è arrivato il cambio della guardia fra generazioni.
In tutti questi anni la cucina di Alajmo si è avvitata in una serie di magnifiche ossessioni, per un singolo ingrediente, per una tecnica, per un filone creativo, come il Gioccolato o i cappuccini. Tutte approfondite fino all’esaurimento o alla temporanea sospensione. Resta tuttavia immutata la direzione di una cucina, la cui prima ispirazione è la nostalgia dell’infanzia, in una fuga di motivi originari. Perché i bambini detengono la verità e, come si legge nell’ultimo libro, Fluidità: “La cucina deve spogliarsi dell’inutile per ritrovare la stessa innocenza che il bimbo ha nel raccontare il suo piccolo mondo”. Che significa familiarità, piacere, divertimento, calore.
Ciò che diventa, era
I piatti delle Calandre sono quindi risolutamente italiani, con richiami a una memoria gustativa quasi banale, rassicurante fino al comfort e inevitabilmente incline all’understatement.
Lo dicono i nomi sulla carta, dalla battuta di vacchetta piemontese al maialino da latte arrostito, passando per una sfilza di straordinari primi piatti, punto fermo su cui si incardinano pasti mobilissimi.
Nessuna provocazione neanche in bocca, dove il gusto si conferma materico e rotondo, pienamente appagante nei suoi molteplici livelli di lettura, tanto per il profano che per il gourmet. Non senza lampi di irresistibile ironia e spirito ludico. Vedi i ricorrenti giochi di parole, i sistemi di fruizione ancestrali o semplicemente regressivi, con liquidi da spruzzare in bocca, fluidi da aspirare a mo’ di cerbottana e bocconi da mangiare con le dita, prima che diventasse di moda, sempre a fini organolettici. “Ciò che diventa, era” recita il motto degli Alajmo.
Lo stesso impulso porta a privilegiare ingredienti fortemente simbolici, quindi l’uovo e il latte, la cui sensazione viene ricercata altrove, per esempio nelle mandorle o nel riso, in un’instancabile reductio ad originem del cibo. Soprattutto nell’acqua, che è al centro di questa fase creativa alle Calandre. In primo luogo nell’elaborazione delle salse, che dall’emulsione con l’elemento neutro guadagnano non solo pulizia, ma anche una paradossale intensificazione. Lo schema è quello omeopatico della diluizione per il potenziamento, quasi che i gusti leggermente disciolti nell’acqua, “ambasciatrice di sapori” rivitalizzante e sgrassante, forse vettrice di memoria, diventassero più affini al nostro corpo e ai suoi organi, quindi più facilmente percepibili. Provare per credere. Ma l’acqua è anche l’elemento su cui fa leva il forno a pressione per variare le strutture degli alimenti in cottura: l’innalzamento del punto di ebollizione, rallentando l’esplosione interna, esalta infatti la succulenza, con testure che nel caso del maialino si lasciano paragonare solo a una terrina, sotto il vetro della cotenna; aiuta a liberare il collagene e ad estrarre i grassi, come quello del rombo, che viene utilizzato per mantecare uno straordinario risotto alla marinara dai profumi mediterranei. L’altra polarità della cucina delle Calandre è infatti la tecnica, che riposa su solide basi scientifiche. Quella che Alajmo sta praticando è a tutti gli effetti una cucina paramolecolare, o transmolecolare, che i composti chiama appunto per nome, nel tentativo di trovare una spiegazione razionale alle trasformazioni della materia. “Ma la tecnica non è mai il mio obiettivo. La scienza è una parte della conoscenza, non quella definitiva”. L’attenzione per il dettaglio è maniacale, il controllo totale, il virtuosismo sottile e ubiquo.
Il gusto e la materia al centro dell’ispirazione
Il sottotesto però è tutt’altro. “Sto lavorando molto sull’intenzione, perché chi fa piegamenti a terra pensando di spostare il pavimento, riesce ad attivare una muscolatura diversa. Vale in ogni campo ed è per questo che la cucina della mamma è la migliore: perché c’è un’intenzione: l’amore. In quanto cattolico praticante, la mia è far star bene le persone, conoscere il mondo e migliorare me stesso. Quindi cerco di avere un atteggiamento di scoperta nel rapporto con la materia, che contiene una parte interiore e una parte esteriore: è insomma lo specchio riflesso di una dimensione ulteriore, dove possiamo trovare molte risposte, e anche alcune domande. Se ci soffermassimo a capire cos’è una coagulazione, probabilmente scopriremmo molto dell’uomo”. Spessori mai esplicitati, perché sono i piatti a dover parlare, magari facendo leva sul simbolismo, senza però fuoriuscire dallo specifico culinario né rinnegare una piacevolezza persino carnale. Non c’è traccia di ascetismo in questa spiritualità, perché “a tavola cerchiamo tutti il piacere, ma il piacere è quello che racconta la bellezza e la bellezza dovrebbe indicare il sentiero giusto”. Era già così per gli alchimisti, dice una scuola di pensiero: era l’oro della trasformazione interiore che cercavano, attraverso la metafora della crisopoiesi.
Gli effetti sono anche sull’estetica, quanto mai naturale, perché “quando faccio un piatto cercando di convincere qualcuno, diventa artificioso. E un dressage appariscente è fin troppo facile da realizzare”. Meglio porre al centro il gusto, anzi la materia, vera autrice delle sue elaborazione. “La nostra filosofia è quella di seguire e servire l’ingrediente; sono le sensazioni che desta a dettarci il piatto, suggerendo gli accostamenti più opportuni”. Degustando una determinata varietà di capperi, per esempio, è stato concepito il risotto al caffè; mentre un’altra ha suggerito lo splendido spaghetto con lavanda, orzo e salsa di cipolla oggi in carta. Come si legge nel precedente libro Ingredienti, il cui titolo descrive una marcia verso il nucleo delle cose: “Bisogna intervenire il meno possibile. Non intervenire è il momento massimo, il sogno di un cuoco. Quando arrivi a far questo, probabilmente sfiori la conoscenza pura”. O forse la cucina va interpretata come attività non agente, secondo quanto insegnano le discipline orientali.
L’italianità dei piatti
Non è facile sfilare qualche piatto dal gomitolo dei menu 2016, colorati e avvolgenti come la lana a centrotavola. I degustazione sono tre: il Classico, Max e Raf, tutti composti di 11 corse a 225 euro. Per accompagnarli c’è una carta dei vini da 1500 etichette, che privilegia, da tempi non sospetti, i naturali, amministrata da Raffaele Alajmo (foto qui sotto) con il sommelier Matteo Bernardi. Ma il lavoro è anche sui sistemi di beva: vedi i bicchieri che omaggiano Gravner, ripristinando il gesto dell’offerta verso l’alto, e in generale la gamma a forma di ombra, che varia solo nelle dimensioni, sul modello del calice delle osterie venete.
Nudo e crudo gioca la carta dell’ironia, a cominciare dal servizio su una tovaglietta trasparente che, destando un sentimento di mancanza, sviluppa un surplus di sensazioni.
La serie delle crudités inizia dal calamaro di pasta alla barbabietola con calamaro crudo, dentice e crema di litchi, sullo schema bulliano del frutto esotico sposato ai cefalopodi; prosegue nella carne sottilissima, a velo sul pan biscotto con crema di crostacei, caviale e foglia ostrica; passa per il gambero rosso impanato ma non cucinato con salsa di pistacchi al caffè e misticanza; si conclude nello spaghettino di soia al miso con anguilla affumicata, pasta di curry, ananas e ancora calamaro.
Moeche e asparagi spicca per la sua salsa a base di curcuma fresca, lavorata in crema, poi stemperata con una “maionese” diluita a base di soia e olio: la prima prova del potere di definizione del gusto da parte dell’acqua, che rende il composto avvolgente ma non invasivo, leggero senza risultare penitenziale.
Sul modello giocoso di una comune maionese, condisce i granchi e i vegetali, passati entrambi in una pastella molto liquida di farina, amido e acqua gassata, poi cosparsi di mais semisoffiato per un crunch arioso; la frittura viene svolta in extravergine di nocellara del Belice. O ancora l’irresistibile scarpetta, servita nel contenitore appositamente confezionato dal mastro vetraio Lunardon a forma di calzatura, riempito di borragine con i suoi fiori, agretti, asparagi crudi con balsamico alla rosa e mimosa d’uovo, salsa di cipolla rossa, sorbetto di senape dalla sensazione lattica e ovviamente pane; più uno spaghetto-spago passato nel forno a pressione per una maggiore plasticità e solubilizzazione della salsa, sempre di cipolla. La tecnica non è mai stata così divertente.
Fra i primi la tagliatella primavera, in omaggio a Sirio Maccioni, impastata con farina di piselli secchi passata a diverse temperature e acqua, poi trafilata; viene condita con ortaggi freschi di stagione, una leggera spolverata di spezie e un’altra salsa epurata all’acqua, questa volta a base di pistacchi.
Il dotto, o morone, è per Alajmo il nostro black cod: grasso grazie alla profondità, sodo e sfogliato. Cotto in padella con mais e carbone, viene servito con una crema di barbabietola all’anguilla e bottarga. Oppure il pollo “arrosto”, le cui cosce e ali sono passate nel forno a pressione, per una testura fondente e succosa che rovescia il conosciuto senza alterarlo, con l’osso che si sfila dalla polpa. Vanno mangiate con le dita, per portare al naso il profumo crescente delle erbe e fare entrare l’ospite nella fase di cottura; sul piatto con il petto scaloppato, patatine “fritte” e una concia di pomodoro leggermente piccante, che richiama la cucina americana. Come nel risotto ormai storico allo zafferano e polvere di liquirizia, accompagnato dalla recente rilettura all’incenso, si insinua la spia di un’ispirazione religiosa nelle papillotes commestibili di ostia.
Dopo il pipa libre di frutta tropicale, da aspirare giocosamente al tavolo, è imperdibile la mozzarella di mandorle: nelle sembianze sdrammatizzanti di un trompe-l’oeil, reinventa il mandorlato, specialità di Cologna Veneta, attraverso il trait-d’union del lattico comune a mandorle e formaggio. Ecco quindi il guscio vitreo, friabile e sottile di torrone, farcito di una crema all’acqua di mandorle e condito con olio, sale, pepe, capperi e peperoncino candito. Tecnicamente un virtuosismo, nelle testure e nella purezza gustativa; simbolicamente una fuga di motivi primigeni, che riconduce alle origini stesse della famiglia Alajmo, dal Veneto alla Sicilia, terra di pasticceria all’olio, passando per la Campania. Sotto il segno dell’italianità, senza perdere la gola né il sorriso.
ristorante le calandre
Via Liguria, 1
35030 Sarmeola di Rubano (PD)
Tel. 049 630303
www.alajmo.it