Milano, Porta Genova e oltre. Non si arriva per caso in via Watt 37, dove una volta iniziava la periferia cittadina, oggi fagocitata dall’espansione urbanistica e portata a nuova luce dagli scalpelli dell’archeologia industriale. Uno l’ha impugnato l’architetto Monica Melotti, che per conto di MB America ha riconvertito l’ex stabilimento Richard Ginori in un complesso di funzioni. Compresa la ristorazione di alta gamma affidata al talento di Luigi Taglienti, che si è dedicato per un anno alla definizione di ogni minimo dettaglio. Fuori e dentro il piatto, la stessa sensibilità ed eleganza.
Gli spazi sono ancora quelli squadrati di una fabbrica, con gli uffici al piano superiore adibiti a loft. Gli interni pura luce, grazie al total white e al giardino d’inverno che si apre in mezzo alla struttura. Sono bianchi pareti e tende, tovaglie e sedie, le divise e i merletti della cucina “a intravista”, che anziché scoperchiare la sua quarta parete lascia intuire le danze dei cuochi dietro un paralume di trafori. “Un ristorante nato con me, ed è una fortuna per un cuoco poter scegliere ogni elemento del suo ambiente di lavoro, gli ingredienti, le posate, le casseruole Mauviel, i protocolli di un servizio professionale ma sobrio, al passo con i tempi.
Soprattutto la cucina, che ho progettato personalmente”, illustra lo chef. “Si tratta di un blocco unico, con innovative piastre a induzione, che scaldano fino a 350 °C e fino a 2 cm, senza dispersione di calore, e in mezzo una plancha elettrica che si può utilizzare con o senza casseruole, come il vecchio fourneau. Qualcosa di iperessenziale, simile al mio stile, che coniuga l’avanguardia alla gestualità primordiale del cuoco. Ma è solo lo spazio per le finiture: è nel laboratorio per il pane e la pasticceria che vengono messe a punto le nuove ricette, ci sono le celle e i ripiani per la prime lavorazioni”.
Taglienti esperienze
Lume però non è solo ristorazione gastronomica, ma anche catering. Le sale per gli eventi sono due e importanti, una delle quali unificabile al ristorante, per un totale di 1000 metri quadrati e una capienza di altrettante persone.
Le chiavi tintinnano nelle tasche di un fuoriclasse della nuova leva. Trentasei anni, Luigi Taglienti è ligure, anzi ponentino, e non solo perché è nato a Savona. Arriva tutto da casa il pesce nelle sue celle, così come l’extravergine (con l’alternativa di un pugliese, sempre da cultivar taggiasca) e gran parte delle verdure di stagione. Liguri sono i profumi delle erbe aromatiche, soprattutto la maggiorana, praticamente un’ossessione, e liguri, con qualche integrazione campana, sono i limoni che fanno impennare l’acidità, gusto prediletto dello chef. Ligure infine è l’imprinting gustativo: quello della cucina femminile e di casa di nonna Ernestina e della bisnonna, usa a cucinare per casate nobiliari in Toscana. “E se sei cresciuto mangiando il minestrone con le verdure dell’orto appena tagliate, è naturale che dentro possa scattarti qualcosa. Poi c’era mia mamma, che per 15 anni ha tenuto uno stabilimento balneare dove io gestivo il bar, magari fino a tardi, facendo un po’ di fatturato. Cosicché un giorno mio zio mi ha preso di peso e mi ha portato a iscrivermi all’alberghiero di Finale Ligure. La prima stagione l’ho fatta in sala, poi non mi sono più staccato dai fornelli. Alla Meridiana di Garlenda ho capito che la cucina poteva essere qualcosa di diverso. E da lì le prime esperienze importanti: con Ezio Santin all’Antica Osteria del Ponte, per cominciare, che mi ha fatto innamorare sempre più con piatti ancora contemporanei, perché la sfida è creare armonie fuori dal tempo. Poi, per troppo poco tempo, con Pierangelini. Ero giovanissimo e ambizioso, voglioso di carpire il più possibile, ma sono tornato con la consapevolezza che la cucina è anche gestualità, che è il pensiero a focalizzare con naturalezza la tecnica, tu magari la sai già ma è la mente a guidarla”.
La Francia però è vicina, per un ligure di Ponente. “Alla Palme d’Or, dove mi ha mandato Carlo Cracco, ho imparato il rigore di una grande maison e il funzionamento di una grande brigata con Christian Willer e Christian Sinicropi. Poi al mio ritorno, da Cracco-Peck nel 2004, mi sono confrontato con uno chef elegantissimo, che aveva compiuto un percorso molto simile al mio”. Nella cucina, che inizia a esprimere da chef di nuovo alla Meridiana di Garlenda e poi alle Antiche Contrade di Cuneo, dove conquista la stella, significa ripescaggio delle basi classiche, ad esempio della lièvre à la royale, destinata a trionfare sulle tavole di Trussardi alla Scala e di Palazzo Parigi, e in generale rinnovamento dell’istituzione salsa, perfezionata anche per via tecnologica. Ad esempio ricorrendo alla crioestrazione secondo la scuola di Yannick Alléno. Soprattutto vuol dire accumulare munizioni sul fronte dell’acidità, mai così esacerbata, per fronteggiare tendenze dolci e un inedito protagonismo del grasso, sexy e avvolgente. Mentre arretrano la sapidità e l’amaro, secondo un paradigma gustativo spiazzante. “È sempre stato il mio studio, anche prima che diventasse moda: capire come modulando l’acidità si possa ridimensionare l’esaltazione di sapidità, fino a eliminare praticamente il sale”. Cosicché il menu finisce per articolarsi in una serie di svolte inconsulte e di eccessi esacerbati, che si giustificano e si bilanciano vicendevolmente. Ed è questa originalità organolettica a fare la differenza in un pasto, che porta i connotati della cucina italiana d’avanguardia. Concettuale, essenzialistica, piacevolmente ossificata e centrata sulla verità della materia, spesso servita cruda, seppur con un’impronta più classica ed elegante rispetto ai coetanei.
Degustazioni senza titolo
“Stare fermo per un po’, mentre mi occupavo di progettare Lume, mi ha aiutato a focalizzare tanti aspetti e a ripartire da me stesso; ho riacquistato la voglia di cucinare e approfondito la gestualità”. Lo si apprezza appieno nei due menu senza titolo: uno più legato a Milano (ossobuco; musetto cotto nello spumante; raviolo di magro; risotto giallo al midollo; controfiletto alla milanese; macaron al Gorgonzola 100 giorni; tartufo nero e tiramisù) a 120 euro; l’altro a mano libera, più ardito e personale, con una dozzina di corse a 150. Mentre a mezzogiorno c’è la degustazione del pranzo, con 3 portate a 40 euro oppure 4 a 45. La carta dei vini, curata dallo chef con il sommelier Andrea Petraroli, già in forze al Cambio di Torino, elenca 400 referenze, con dosi di grandeur ma anche piccole cantine originali e un ricambio accelerato ispirato alla stagionalità. Se ne distaccano due percorsi flessibili di abbinamento al calice; ma può essere anche il piatto a derivare dal vino, come nel caso del pollo di Bresse ispirato al Petit Beaufort.
Si comincia con un reset del palato: acqua, olio, limone e liquirizia è una composizione di ingredienti primari a diverse temperature fredde. Un’aspersione rituale che finisce per rinnovare la degustazione di materia grassa a inizio pasto, volta a tappezzare lo stomaco. Da notare la tecnica di solidificazione dell’olio, ridotto in trucioli dopo essere stato abbattuto a -40 °C e lasciato riposare in acqua ghiacciata, senza alterazioni di struttura, in modo che con il calore della bocca possa sprigionare tutta la sua fragranza.
Fra gli antipasti l’elegante panna cotta ai ricci di mare, ricordo del Piemonte, ingannevolmente cremosa grazie alle temperature di preparazione, su fondo di concentrazione di diversi agrumi con disco di pasta di seppia frullata, naturale e al nero, olio al peperoncino e uno spaghetto soffiato, spia dell’ispirazione in un familiarissimo primo; i gamberi bianchi di Santa Margherita, appena intiepiditi sotto la salamandra, serviti con anguria, chinotto, capperi e un’emulsione di mandorla che da spumosa via via si liquefa; la sorprendente ostrica al Castelmagno, una Gillardeau frullata praticamente al naturale e spolverizzata di formaggio, monogusto di sfumature sapide ricongiunte per via di ossimoro dai sentori erbacei, in arrivo dall’alta quota o dai fondali; l’aragosta con dolcissime lumachine bianche glassate nel loro potage di tradizione ligure, quello a base di animelle, pinoli, nocciole fresche e noci di nonna Ernestina, per una similitudine fra testure sbalzata dall’acidità del tamarindo; la parodia dell’anguilla alla brace senza brace, cotta al vapore per non sciupare il grasso e issata su una scala vertiginosa di acidità: il condimento di limone verde al pepe con suprême su crema di limone. Difficile padroneggiare con simile naturalezza l’eccesso. Spingere in una direzione, però, è quel che consente a Taglienti di esagerare a stretto giro in quella opposta.
È il caso della salsa di noci, come un’idea di pasta in absentia, quindi il latte emulsionato fino ad acquisire la consistenza e l’adesività di un burro montato, le noci e la maggiorana a ripulire con balsamicità e ruvidezza; a seguire il pelato San Marzano, “quello autentico, troppo buono per essere toccato, come la conserva di una volta”,con mezzanello del Pastificio dei Campi scondito e foglioline di basilico su gel di limone, leitmotiv del pasto. Grassezza e spigolosità, pastosità e pasta.
Notevole anche il piccione, con il filettino crudo, il petto cotto sottovuoto, à la coque, e una salsa di rosmarino che è la vera protagonista del piatto, sottoposta a micro fermentazione, per sviluppare l’effetto salamoia, e lasciata evaporare a temperatura molto bassa, fino a evidenziare note sorprendenti e un tannino sveglio sulla succulenza. Il lato perturbante di quanto è familiare.
Non da meno la pasticceria. Mai visto il sanguinaccio di pesce, preparato con il sangue rilasciato dalle carcasse di pesce azzurro, immediatamente abbattuto per evitare fermentazioni indesiderate, il cui ittico ferroso, lungo e intenso riemerge dal mascheramento dei classici ingredienti del dolce di maiale: le spezie, il cacao, gli alcolici, fra cui un goccio di Marc de Champagne per il richiamo al sangue nella lièvre à la royale. Poi l’intermezzo acido oltre ogni immaginazione della cipolla in osmosi di succo di maracuja, sbucciata e rivestita d’oro in omaggio al principio per antonomasia della cucina italiana, traslato a fine pasto, e il ribaltamento del suo PH nella banana alla brace, con effetto caramello, dentro il fagottino di melanzana cruda al caviale. “Un piatto nato d’istinto, senza nemmeno provarlo. Come un flash”.