Nel circo gastronomico di Romano e Francesco Tamani
14/06/11
Sarà per le righe ribalde della tenda che drappeggia il soffitto, bianco e rosso in un maremoto di sbuffi; per l’horror vacui che ha preso d’assalto le pareti, puzzle di colori e forme disparati senza un centimetro di scarto; o forse per l’illusionismo della mise-en-abîme degli specchi, magia che dissolve lo spazio chiuso in un caleidoscopio di rifrazioni. Sta di fatto che si entra all’Ambasciata coll’emozione di un fanciullo nel circo. Luogo del fantastico e dell’esagerazione, delle piste su cui scrosciano gli applausi dopo la prodezza d’eccezione. Tanto più se una musica solenne unge di sacralità le variopinte code di pavone, sancendo l’ingresso nel rito collettivo. Funambolismi, arrischiate domature, giocolerie e prestidigitazioni. Gioie barocche di cui si fanno anfitrioni da trent’anni suonati i fratelli Tamani. Artisti alla maniera delle coppie di clown. Dove Romano esonda generosamente dal corridoio fra i fuochi, incontenibile Augusto della situazione, un occhio verde e l’altro marrone, il terzo assorto nella divinazione; mentre Francesco, “bibliotecario” di un’enciclopedica cantina, a dispetto della fantasmagoria delle cravatte assume i toni asciutti del clown bianco nel suo severo savoir-faire. Spettacolo puro per il pubblico dei tavolini rotondi come piste nella pista, da cui si levano elastiche vocali a glorificare la meraviglia. L’atmosfera elettrizzante celebra l’apoteosi del territorio mantovano: tendenze dolci e grasse spiccate, come vuole il microclima padano di cui parlava a suo tempo Marchesi; morbidezze succulente fino alle porte di Sibari; seduzioni abbondanti e voluttuose. Il nomadismo non fa parte di questa rappresentazione, unica Ambasciata che offici la sua diplomazia gastronomica entro i confini della madre patria. Panem et circenses di un’esperienza con pochi eguali in Italia.
Le piace questo paragone circense?
Sì, sono stato spesso a New York da Sirio Maccioni e quell’ambiente mi ha stregato con la festosità popolare e i colori squillanti. All’osteria del Circo c’erano addirittura i trapezisti sopra. Quando Massimiliano Fuksas, il grande architetto, è passato all’Ambasciata, stavo pulendo le colonne di libri, di cucina o di arte. Mi ha detto: “Ma guardi che bravo questo architetto”. “Scusi, io ho la quinta elementare, non sono architetto ma ho fatto questo”. Le ha definite “piramidi di parole”: ogni anno se ne aggiunge una nuova. Nel peregrinare della mia professione, in Italia e nel mondo, ho avuto tanti amici artisti. Uno su tutti: Mario Schifano, grandissimo amico fin quasi alla morte. In lui non ho mai trovato uno spunto di cucina, come leggo in qualche intervista di giovani cuochi. Vedevo l’arte, la follia, ma mi diceva: “Perché, invece di guardarmi, non fai un piatto di spaghetti?”. Ogni cuoco ha le sue visioni, dell’arte e della cucina. È una simbiosi. Ho visto Schifano buttare il vaso sulla tela, il gesto era uguale al mio quando getto il pomodoro in padella.
Un piccolo flash back, a questo punto.
Sono nato in questa casa, il 30 aprile 1943. Mio padre faceva il casaro, come i miei zii. Siamo cresciuti fra il burro, il formaggio, gli animali da cortile e i maiali che grufolavano. Ricordo che mettevano il coniglio d’inverno dietro casa appeso alla finestra per intenerire le fibre col ghiaccio. Eravamo sei fratelli, più la sorella. E sono sempre stato attratto dalla cucina, tanto che quando tornavo da scuola andavo a lavorare all’Albergo all’Angelo. Mentre facevo l’Alberghiero a Modena, sono stato da Fini al San Francesco: zampone, bollito, fritto misto. Era il trionfo della cucina italiana, e dietro c’era tanto lavoro. Perché è più facile servire uno scampo crudo fresco che un brasato che cuoce 2 giorni sul lato del fornello.
Niente sottovuoto?
Non è che non mi piaccia, ma è un mangiare un po’ da monaca. E le monache diventano buongustaie quando sono avanti, da badesse, e insieme ai baffi cresce il gusto… Invece faccio cucina benedettina, perché i frati mangiano poco ma bene. I benedettini da queste parti cucinavano la granseola, che arrivava tramite i Serviti di Venezia via Po, con le arance, chiamate portogalli. San Giovanni avrà pure mangiato a Patmos su un tavolino inginocchiato, ma chissà cosa c’era sopra. Un peccato svelto, ma gustoso. Fra’ e preti, dove c’è l’abito talare vuol dire che si mangia bene: altro che camionisti. Tornando a Fini, l’ho lasciato per fare 15 mesi di militare, a cucinare per il circolo ufficiali. Dopo con un permit sono andato a Londra, al Quo vadis, nella strada dove aveva vissuto Marx. Si faceva cucina italiana: il minestrone, che qui preparo con i gamberi spadellati, un filo di olio d’oliva e Parmigiano sempre e comunque. E poi il Savoy, dove si faceva una cucina un po’ francese e un po’ inglese. Campeggiavano la sole bonne femme, il roast beef e l’agnello con la salsa alla menta. E ho iniziato a masticare qualche francesismo. Poi 33 anni fa sono tornato a casa. Qui c’era un pollaio, ho fatto i debiti per aprire un ristorante pizzeria. Ma la pizza non la prendeva nessuno, così abbiamo tenuto solo la cucina. E spontaneamente, senza salti, è arrivata la ristorazione gourmand.
A cosa allude il nome?
Quando abbiamo ristrutturato, ci veniva a trovare l’Ambasciatore Adolfo Alessandrini, che portava da bere ai muratori e sorvegliava i lavori dalla casa delle vecchie zie, che facevano le sarte. “Meglio l’Ambasciata di Quistello di quelle che mi ha dato la Farnesina”, diceva, anche se ormai era andato in pensione. Pensare che non gli han dato l’ambasciata americana perché frequentava un paesano comunista…
Colpisce che a servire i piatti siano i cuochi, cosa che è stata sbandierata come una rivoluzione tanto da Davide Oldani che da René Redzepi.
L’abbiamo sempre fatto. I cuochi servono i piatti che hanno preparato, perché il contatto sia vivo, tutto più vero. Vedi il cuoco cucinare dietro il vetro e poi è lui a portare in tavola. Deve sapere tagliare a chateaubriand il garretto, sezionare le anatre. Vorrei ricominciare a finire anche le paste al guéridon. Il profumo della cucina deve entrare in sala. Tra l’altro sono stato il primo a fare una cucina a vista in Italia, nell’80-81. Anche se adesso non se ne ricorda più nessuno.
Qual è il complimento che l’ha lusingata di più?
Franca Ciampi, che ha i nonni di Scandiano, ha detto dei miei tortellini: “Romano, sono buoni come quelli della mia nonna”. Anche Fassino mi ha dato grandi soddisfazioni: è un vero buongustaio. Al pari di Bersani e della sua signora, appassionati di piedini di maiale ai fagioli: ho ancora il cappone che mi ha prenotato per Natale. A volte capita che ai tavoli mi dicano: “Abbiamo mangiato italiano solo qui”. Anche se non è vero, perché ci sono Vissani, Pompili… E ho il rimpianto di Pierangelini. Tutti solisti, perché certo il giornalismo non ci difende.
Cos’è l’italianità per lei?
Il territorio, il prodotto, perché ogni provincia ha la sua tradizione. Il 95% delle materie prime che uso sono locali: all’Ambasciata ho sempre praticato il chilometro zero ante litteram. Vorrei tanto parlare con il nostro ministro del Turismo, la Brambilla, per spiegarle che in Italia c’è la grande arte, il Colosseo; ma c’è anche l’arte della cucina. Che gli stranieri vengono a visitare gli Uffizi, ma anche a mangiare le puntarelle che fanno a Roma o la polenta di Quistello. Perché non abbinare la visita alla Celeste Galleria con un ristorante o un piatto? Anche se la gloriosa cucina italiana è stata svilita, mutilata, umiliata dal minimalismo. Perdendo anche dei pezzi importanti, perché è impossibile trovare un buon pollo o un pasticcio di maccheroni nella pasta. Mentre non avremmo niente da invidiare alla gastronomia cinese, che adoro. Forse anche per il gusto agrodolce.
I suoi tortelli di zucca con il foie gras sono quasi un dessert.
Li faccio come mia madre, che però non li condiva con la vellutata ma con il vincotto, un soffritto di cipolle e concentrato di pomodoro oppure burro e salvia. E a prepararli è mia cognata Carla, addetta anche ai dolci. Ma quelli della mamma saranno sempre migliori, perché c’è l’“effetto affetto”. Il Conte Nuvoletti Perdomini, marito di Clara Agnelli e grande gourmet, diceva sempre che i Gonzaga facevano tante minestre, questa come il tortello di fagioli con castagne e vincotto, forse per accompagnare il cinghiale o il maiale, insomma come contorno per le carni, che erano il fulcro del pasto. E del sorbir d’agnoli, dove alcuni mettono il formaggio, diceva: “Romano, chi non ce lo metteva, era perché non ce l’aveva”. Insomma facevano quel che potevano, quindi oggi è lecito arricchire: ed ecco il foie gras. Per il palato moderno sono quasi un dessert. Tanto che a volte faccio un menu di sole paste – tutte realizzate con le ottime farine del vicino Molino Pasini -: tagliatelle con gli scampi, maccheroni con il coniglio, maccheroni al pettine con il piccione, e in fondo metto il tortello che funge da dessert. Oppure la torta di filamenti di sfoglia, ma la zucca è più dolce.
Ha sempre avuto questo amore per il gusto dolce?
Forse è la zona, perché con i bolliti, gli arrosti, il pesce in carpione, l’anguilla alla brace abbiamo sempre abbinato la mostarda, che è dolce. Ma io personalmente prediligo il salato. Mio fratello prepara i nostri salumi: il salame di 15 mesi, fatto con i tagli migliori del maiale, compreso il culatello, pepe intero e aglio; le salsicce e i cotechini, maturati in una cantina a volte del 1400… Ogni momento è buono per mangiare una fetta di salame, prima e dopo il pasto, fra una portata e l’altra.
L’ultimo piatto che ha coniato?
L’altra sera con dei signori: una vellutata di pomodori profumata al basilico con due anelli di vitello e sopra della bufala. In tavola con il purè di patate. Una cosa estemporanea fra amici. E prima ancora le tagliatelle verdi di ortica con ricotta di vacca, storione e melone. Buonissimo. La pasta e fagioli con l’astice è nata per errore, perché stavo facendo da una parte la minestra e dall’altra un risotto all’astice. Mi sono confuso ma alla gente è piaciuto. Quando oso però sto attento: guardo la faccia dell’ospite, perché l’espressione è tutto. Se piace, allora passa. Ma se qualcuno mi dice: “Romano, è un azzardo”, dopo la terza volta tolgo il piatto. Perché l’ospite è sacro. La gloria della cucina italiana è il passato, ma il nuovo non va eliminato. Deve essere arte, trasmettere gioia, non corrispondere a un mero sussulto della mente. Allora accetto l’invenzione, che non nasce nella testa ma dalle sensazioni. Che senso avrebbe servire il pesce crudo a Quistello? O gli ingredienti fuori stagione? Ci vuole onestà. Io sono contrario alla globalizzazione gastronomica. Sono contrario a una cucina asettica, che rimpiazza le sensazioni con il sensazionalismo. Alla pizza del Bulli dico no grazie, preferisco di gran lunga una bella margherita.