Va di moda il Salento, non è una novità. Ed è bellissima Lecce, quando fuori dalla stagione frenetica riprende per abitudine i suoi vecchi ritmi, con il tempo che si ferma ai crocevia.
Uno di questi conduce per blocchi di pietra in via Acaja, davanti a vetrate polverose di metropoli. Quelle di Bros’, prima che un ristorante, un laboratorio dell’identità salentina, capace di coniugare passato remoto e trapassato futuro in un’ardita archeologia del divenire.
L’atmosfera è quella minimal e spigolosa di un bistronomico di qualche capitale, con i tavoli nudi e i fili a vista delle luminarie, fra cui si aggira un personale quasi imberbe, tanto è giovane, non meno elegante che affabile. L’anagrafe del resto parla chiaro: siamo a casa di Floriano Pellegrino, 28 anni, e della sua promessa sposa Isabella Potì, appena 23. Due ragazzini che si sono messi in testa di portare nel mondo il Salento vero. E per questo hanno viaggiato, studiato, sgobbato, tesi verso un risultato che appare finalmente a portata di mano. Nel loro cuore l’orgoglio di un’identità a parte: “L’unica carta vincente nella competizione mondiale. Perché nessuno può diventare ciò che non è stato”, si infiamma Floriano.
Tutto è stato possibile grazie a mamma Caterina e zio Antonio, e prima ancora a quella nonna mancata tre giorni prima del coup de feu del 26 dicembre 2015, data di inaugurazione del ristorante. La famiglia di Floriano affonda infatti le radici nell’agro di Scorrano, dove questi tuttora si reca con la brigata a raccogliere le erbe e gli ortaggi per il ristorante, in modo da fiutare la stagione e il bosco. Contadini, ma non solo. Visto che c’era pure un agriturismo con il fuoco grande sempre acceso per gli arrosti e le pignate. Cosicché l’ultimo menu autunnale di Bros’ ha svolto il tema del tabacco, che i Pellegrino coltivavano nei loro campi e una volta essiccato portavano in manifattura. Si chiama “Fimmine fimmine ca sciati allu tabaccu”, da un detto salentino che riecheggia la canzoncina intonata dalle raccoglitrici. L’ombra di Carmen in un omaggio alla tradizione femminile, che sfodera unghie graffianti.
“Ho sempre saputo che volevo fare lo chef”, racconta Floriano, i jeans strappati sotto la giacca da chef, in bocca un pidgin mezzo inglese, mezzo dialettale. “Ma nell’estrema provincia del Salento meridionale ho dovuto viaggiare per capire quale fosse la mia missione: riprendere ciò che facevano i nonni, in chiave contemporanea. Dopo le prime esperienze negli alberghi e un anno a Galliate con Ilario Vinciguerra, mi sono imbattuto in Martin Berasategui e l’ho seguito a Lasarte. Lavoravo nel suo laboratorio di investigazione, ma per me era una seconda casa, da cui andare e venire. Ed è stato così che ho fiancheggiato René Redzepi, Alexandre Gauthier, Eneko Atxa, Andoni Luis Aduriz e Claude Bosi. Tutti maestri che mi hanno cambiato, nel senso dell’organizzazione propria delle grandi maison come della comprensione del processo creativo. Oggi Bros’ funziona come un ristorante pluristellato, anche se siamo ancora agli inizi. Portiamo avanti un metaprogetto di investigazione e sviluppo, articolato in aree tematiche come la comunicazione, il gusto del Salento, la masseria moderna, che significa principalmente autarchia”.
“A un certo punto infatti ho realizzato che avevo percorso il mondo, senza mai studiare casa mia. E mi sono sentito pronto: dobbiamo essere veloci, perché il mondo può correre più in fretta di noi. I miei fratelli Giovanni e Francesco, che hanno aperto il ristorante con me, hanno continuato a formarsi qua e là, usufruendo dei soldi comuni distribuiti secondo le esigenze di tutti; come Isa, che ha lavorato da Berasategui, Torreblanca e Bosi, più recentemente anche da Mauro Colagreco e Rasmus Kofoed. Questo per me è il momento dello sviluppo: mi basta circondarmi di cuochi e stagisti stranieri, che portino acqua fresca laddove potrebbe stagnare. Ed è già in agenda un nuovo ristorante, gastronomico puro, che dovrebbe aprire alla fine dell’anno”.
L’impressione è quella di assistere a un big bang, che preluderà a chissà cosa. L’atto di nascita di una giovane cucina meridionale diversa da tutte le altre, capace di ricreare le sue stesse origini con fedeltà di sangue, nella consapevolezza che “la tradizione non è un patrimonio che si possa tranquillamente ereditare; chi vuole impossessarsene deve conquistarla con grande fatica”, secondo il dettato di T. S. Eliot. Non c’è strimpellare di mandolino o di pizzica che tenga: la piacioneria arrotondata di tanti giovani vecchi è lontana. Non si tratta solo di materie prime, che anzi rischierebbero di portare il cuoco nel vicolo cieco dei matrimoni combinati, ma di uno studio del gusto locale, che ne estrapola il potenziale ribelle e avanguardista, per custodi mamma Caterina, che assaggia in anteprima ogni menu, con potere di veto, e zio Antonio, alla guida di una mandria di 35 cavalli. Poi c’è un gastronomo, Massimo Voglio, che a ogni cambio di menu, con qualche mese di anticipo, viene consultato sugli usi e costumi. “Quando gli ho chiesto quale fosse il gusto dell’autunno salentino, ha tirato fuori una mostarda di olive di Bitetto, salvia e arancia. Una bomba. Perché noi non abbiamo niente a che fare con il resto della Puglia: discendiamo dai messapi, siamo greci e bizantini. Ma vogliamo essere internazionali a casa nostra”.
Il risultato assomiglia a una metempsicosi dell’avanguardia italiana di conio Lopriore, attenta a liberare nelle tradizioni regionali, narcotizzate dall’abitudine, gli acidi con cui corrodere lacci e cinghie dell’accademismo, rovesciando l’affondo etnico in provocazione avanguardista. Ma questo accade una generazione più tardi e con diversi magisteri; uno sguardo sul Giappone, naturalmente affine per la brevitas, il crudismo, la naturalezza, e un altro verso la Scandinavia reinterpretata da un macedone, anch’egli dunque mediterraneo. Ricorrono le fermentazioni, per quanto ricondotte al retroterra salentino (leggi ricotta forte), quale viatico per una temporalità diversa e nostalgica del piatto, quasi un’altra dimensione. La sua massima espressione è il rancido, gusto della massima complessità e persistenza, attualmente allo studio.
Scorrano è il paese delle luminarie e gli è stato dedicato il menu “Shine on you”, incentrato proprio sull’intensità e la concentrazione di queste famiglie gustative (lo evidenziano pezzi di arredo anch’essi stagionali e la presentazione della piccola pasticceria). Può essere gustato alla carta, in formule da 5 o 15 piatti rispettivamente a 70 e 135 euro, con abbinamento di vini pugliesi, italiani o del mondo, birre, cocktail o succhi di stagione. Ma l’ideale è mixare, con i centrifugati che smussano restando nel registro raw e gli alcolici che vanno a ripulire, scongiurando l’effetto mangia e bevi.
I primi piatti sono interlocutori: composti di pochi elementi, a volte appena due, col coraggio di chi ha cuore, avanzano un registro acido misurato ma diretto, per sollecitare appetito e digestione. Lasciano sempre al centro la materia, che da queste parti ha spigoli e spigolature tutte sue, con l’amaro degli oli e degli ortaggi in evidenza. Ecco allora la sferificazione di burrata, che sembra manierista, ma vuole ricostruire il latticino perfetto, dalla pelle sottile e uniforme, con concentrazione di succo di pomodoro de ’mpisa, il piennolo locale, congelato e separato dalla sua acqua, e olio agli agrumi (gli aromatizzati in stile Passard sono una quindicina). Oppure la cipolla, un intarsio barocco leccese di petali in pickle o con diversi aceti, lampascioni, olio di sponsali, ribes fermentato al rum per la pulizia alcolica, tapioca in brodo di cipolle, amarene sciroppate, concentrato di cipolla di Montoro alla brace e abbondante olio infusionato al geranio, che insieme ai fiori di carosello, il finocchio selvatico, riporta la liliacea nel bouquet che gli è proprio.
Segue quella che Floriano chiama “fase umamica”, articolata per complessità crescente verso registri più provocatori, con note rancide dominanti prima della pasticceria, di stampo classico e comfort, firmata da Isabella. Vedi la barbabietola maturata per due settimane in una pasta amidacea ai pomodori secchi e peperoni alla conza e servita cruda a mo’ di insalata, con mandorle a smussare, capperi e gel di vino spunto, un aceto bambino. Ma il signature di Bros’ è la ricotta forte, un ingrediente feticcio che rappresenta l’orgoglio salentino, idiosincratico quanto altri mai. “È l’attaccante del menu, ma volevamo ingentilirla per renderla comunicabile e abbiamo pensato a una panna cotta al latte vaccino”.
Il connubio con il coulis lucido di ricci di mare ne isola e rilancia la sensazione fenica, appena addomesticata dalla grassezza pastosa, senza tentare di snaturarla o di sterilizzarla, ma anzi sottolineandola. Una lettura geniale.
Nelle linguine Floriano dimostra di saperci fare anche con i primi, cosa non scontata per chi si è formato all’estero. Sono condite con liquamen, una colatura grezza, senza passaggio nelle botti, pistacchi e una spolverata di pepe sancho, che elettrizza ogni morso scongiurando la confortevolezza del carboidrato, da sempre invisa agli avanguardisti.
Ma spingono anche i fagioli dall’occhio, cotti classicamente nella pignata, Roner ante litteram, per un’esplosione carnea di umami e serviti con un brodo infusionato alla salvia, concentrazione di amaro, terrosità e balsamico che estremizza l’equilibrio gustativo della memoria.
I secondi hanno una composizione iperclassica (pièce, sauce, garniture) e una semplicità tutta orientale. “Perché noi siamo un kaiseki Salento.
Lo era già mia nonna, con la cicoriella amara e i gamberi crudi”. Quindi il pesce del mercato del giorno spennellato di grasso rancido (come la faraona e la quaglia) e cotto al barbecue (“perché la padella la odio, cuocio tutto alla griglia o alla plancha. Aspettare, riposare, toccare”), con patata dolce, friggitelli, oliva cellina; il maiale nero frollato con arachidi e lattuga; l’animella in pastella ai ceci con liquirizia Amarelli, sponsali e physalis per lo stacco acido.
La pasticceria è introdotta da un altro signature: Bros’ Vitaminico, con gelatine di frutta di stagione a forma di lettere e un brodo freddo infusionato di zenzero e cannella. Poi i dessert di alta scuola di Isabella (ma qui tutti fanno tutto, anche la plonge). “Un paio di mesi prima del lancio del nuovo menu, io e Floriano ci sediamo a tavolino e riflettiamo sulle tradizioni e i sapori, poi ci confrontiamo con il resto della brigata e iniziamo le prove”, racconta. “Abbiamo scelto di dare al fine pasto una connotazione ‘neoclassica’, rivitalizzata da tecniche e gusti nuovi, in continuità con il salato, ma più soft, direi pop”.
Quindi il gelato al latte di pecora con l’ananas tranciato al guéridon, cotto al barbecue per mezza giornata e glassato alla melassa di melagrana, in seguito a uno studio sulle melasse del Mediterraneo. “Perché il nostro sforzo è quello di spostare il baricentro verso sud”.
Oppure i soufflé, cavallo di battaglia di Isabella, al limone e miele o alla castagna con gelato di alloro. “Il mio maestro in materia è stato Claude Bosi, poi ho studiato e praticato. Ho una passione per questo dessert da quando ho iniziato a destreggiarmi in pasticceria e credo che il forte legame con la cucina mi aiuti a combinare i gusti”.
Ma non manca mai un dessert tutti frutti, per la massima leggerezza, in questo momento il millefoglie di sola pera con gelato di caramello e gel di bergamotto. Mentre è ormai un signature (Bros’ ante litteram, visto che risale al 2013) l’Uovo fucking gold a strati dentro il guscio di acciaio, con salsa mou, pasta di limone amara, biscotto, tuorlo marinato ma fluido per la leggera sapidità, spuma di latte e vaniglia a blandire. La piccola pasticceria è al carrello, per evitare sprechi e assecondare il gusto personale.