Nebulat ergo cogito: scrive un ispirato Umberto Eco, semiotico alessandrino per natali e per soffuse filigrane linguistiche. La nebbia, argomenta, non è come la neve: non la insudici, non la sporchi; ti riempie i polmoni come un buon tabacco e ti protegge dal mondo esterno, lasciandoti a tu per tu con la tua interiorità. Perché la nebbia è uterina: “Ti concede una felicità amniotica. Hai la sensazione che forse un giorno uscirai dalla vagina e dovrai affrontare il mondo, ma per il momento sei salvo”.
Sembrava stesse scomparendo, la nebbia, fino a questo freddo 2010 che ha smentito tanti cliché evoluzionisti. E anche la cucina, nella sua coltre, ha subito il contagio della nostalgia e della vaghezza, virando verso i calori corroboranti e le morbide rassicurazioni delle casseruole materne e femminili. A Soragna durerà fino al 2012, visto che hanno imparato a catturarla come un souvenir dell’inverno. Sono i profumi del culatello, un distillato che porta il “tabacco” delle brume attraverso un viaggio di due o tre anni. Quella gentilezza che mitiga l’afrore e tiene al laccio l’impeto della vena animale: ecco il suo segno inconfondibile.
“Per il culatello il 2010 sarà una grande annata”. Marco Dallabona ostenta ottimismo guardando fuori dalle finestre della sua Stella D’Oro. Freddo al punto giusto, opaco, uterino. In controtendenza marcata rispetto al surriscaldamento che ha tenuto a galla il mercurio nei termometri degli ultimi anni. Per il momento il pericolo è scongiurato: il culatello come Venezia, impallinato dalla CO2. Ma l’allarme non è peregrino, se è vero che passati i primi due o tre mesi dell’asciugatura, quando la nobile porzione di coscia suina può subire senza danni la climatizzazione in cella, l’aria stagnante della bassa diventa un ingrediente indispensabile alla sua muffa, non meno blasonata della botrytis. E se fa caldo, addio profumi.
Del re dei salumi, Marco conosce ogni piega. L’aroma di castagna, la goccia, la testura; che venga dagli Spigaroli, dai contadini della zona o dal fratello del genero Diego, lo acquista di 1 anno e se lo affina fino al secondo genetliaco nelle cantine della mamma. È l’ouverture verdiana sui suoi ricchi menu, con la compagnia di strolghini, salami fatti in casa dal porco intero, spalle cotte e quant’altro.
Ma il prodotto è al centro di tutta la proposta della Stella d’Oro, un locale caldo e tipico da 40 coperti (più le camere sovrastanti per la notte), dove rigore e sapienza sono stati premiati da una diuturna stella Michelin. Marco del resto ha origini contadine, che ha fatto evolvere, senza perderne il nerbo, frequentando l’alberghiero di Salsomaggiore e perfezionandosi al fianco dei grandi, soprattutto Georges Cogny. A proposito del quale ricorda: “Era l’estro in persona, avanti anni luce nella ricerca della materia prima e nella creatività. Cucinava in base a ciò che si trovava fra le mani, un ortaggio di frigo per esempio non lo usava come uno freschissimo, e per una bestia vecchia trovava una ricetta diversa da una giovane. La sua era improvvisazione pura”. Dopo una toccata e fuga nel mondo alberghiero, saturo di paillard e cotolette, eccolo al Tramezzino di Parma alle prese con il capitolo ittico. “In carta ho ancora un menu richiestissimo di piatti di mare. Perché ci sono habitué che mi seguono da allora e vengono da Parma solo per mangiare il pesce crudo”.
Le proposte però sono tante: ad esempio i piatti poveri della tradizione, dalla frittatina di porri dolci con gorgonzola al mascarpone (15 euro) alle costine e zampone caramellato alle tre puree e saba (20 euro); ma la domenica c’è anche il leggendario carrello dei bolliti a 20 euro. Il menu degustazione della tradizione costa 50 euro: sono 6 portate, fra cui il suadente budino di porri con crema di Parmigiano e i gettonatissimi ravioli alla Verdi con spalla cotta e tartufo nero. Mentre in carta l’imbarazzo della scelta cade fra le tre tartare in sequenza (cavallo, sanato e chianina con spuma di olio, per mantenere separati i sapori, e un goccio di Aceto Balsamico di Soragna, che di Tradizionale ha tutto fuorché la denominazione, a 20 euro), la femminea ciambella di ricotta con carciofi spadellati (18 euro), le animelle croccantate al burro su caponata di verdure (18 euro), il Savarin di riso alla lingua salmistrata in omaggio a Mirella Cantarelli (14 euro) e il gagliardo tortino di riso al Lambrusco, la cui spinta acida trova il giusto contrappunto nell’opulenta riduzione di Parmigiano e nella collosità della mariola(14 euro).
E ancora gli anolini della Bassa, di solo pane e Parmigiano (14 euro), e le pappardelle al salamino fresco, un altro must della casa (14 euro). I secondi risaltano per le grandi carni, in arrivo da Parisi piuttosto che da Moncucco o dalla Granda. La suprema di faraona caramellata all’Aceto Balsamico con sedano, mele e ribes rosso (20 euro) come il classicissimo coniglio in casseruola (18 euro); ma l’orecchio resta aperto ai fuori carta, i cui ingredienti estemporanei sanno stuzzicare la fantasia dello chef. E in chiusura sanno di casa anche i dolci, vedi il millefoglie e la zuppa inglese scomposta, sempre espressi.
Nel complesso la cucina di un purista, che alleggerendo i grassi e abbreviando i tempi di cottura, ritrova nei piatti la delicatezza animalesca e istintiva del re dei salumi. Saporita nell’evanescenza, forte nell’eleganza, felina come il gas che si scatena dalla flûte dello Champagne, diavolo biondo e sornione, protagonista di una carta dei vini enciclopedica e pluripremiata.