La tramontana non smette di soffiare sulla cucina mondiale e il segnavento resta puntato verso nord. Ma c’è un estremo nord anche in Italia dove si è verificata l’interessante circostanza che non sia stato il cuoco a cercare la moda come avviene troppo spesso, ma lei a trovare lui. Quasi un bisogno del tempo che conficca le sue insegne senza chiedere il permesso a nessuno. È accaduto a Fabrizia Meroi, anima con il marito Roberto Brovedani del ristorante Laite di Sappada, villaggio delle Dolomiti Bellunesi. Un posto incantato dov’è impossibile mangiare tenendo a freno le emozioni. Che le cime siano innevate o ricoperte di verzure, l’aria frizzantina si insinua fra le cellule portando lumen di luce. Vibrazioni che si traducono in un’ebbrezza spontanea e volgono al sereno il barometro dell’appetito. Specie perché si mangia in una Stube originale del XVII secolo: legni intarsiati sopravvissuti a nevicate secolari e guerre di religione, le cui nodosità temprate dal freddo raccontano l’epopea astorica della civiltà di montagna.
La cucina del nord, dicevamo. Questa bomboniera da venti coperti dista parecchi paralleli dalle renne di Redzepi, eppure il paragone non è peregrino. “A unirci è il rigore del clima, che propizia determinate produzioni e forgia l’anima delle persone. In queste condizioni è impossibile praticare il chilometro zero, perché non riempirebbe il paniere. Lo stesso Redzepi attinge a un bacino di fornitori esteso all’immensa Scandinavia. Ma è vero che il territorio fornisce prodotti dall’intensità inusitata, che è stimolante mettere in circolo con quanto proviene da altrove. Il gusto amaro, per esempio, al quale ben presto da queste parti viene svezzato il palato e che mi interessa particolarmente, se ben bilanciato. O un’estetica elementare coniugata al sentimento della natura. In questo senso il Noma è un esempio anche per noi”.
A due passi dalle sorgenti del Piave, la spontaneità del Laite ha la percussione del pleonasmo. Perché Fabrizia, oltre che montanara, è donna. Quindi incline per dna o per storia millenaria alla matericità di cui scrivevano i peripatetici. Ed è per giunta autodidatta pressoché totale. Un cocktail di autenticità che produce un unicum assoluto. Quello di una cucinaria di montagna femminile ed extra-accademica, esente dalle coazioni a ripetere del territorio e del professionismo maschile. Triplamente originaria e inclassificabile, naturalmente in sintonia con una cucina mondiale che sta tentando di rinascere sulle ceneri del siglo de oro spagnolo. I bei ricci castani di Fabrizia preannunciano la piacevolezza spettinata dei piatti, cui contribuisce la dedizione del giovane secondo Alberto Schiavon.“
Tutto è cominciato nel ‘90”, racconta. “Avevo conosciuto Roberto lavorando come lavapiatti in un hotel. Ogni tanto buttavo l’occhio sui fornelli, ma non avrei mai pensato di farne un mestiere. Però da fidanzati ci piaceva andare per ristoranti: al Roma di Tolmezzo, all’Aquila d’oro, da Sissy a Mauthen, in Austria, oppure da Boschetti, che ai tempi era un due stelle. A Sappada siamo finiti per lavorare all’hotel Cristina, dove davo una mano anche in cucina. I titolari ci dissero che affittavano un bar paninoteca in paese e abbiamo fatto la follia. Con la massima incoscienza l’abbiamo trasformato immediatamente in ristorante. Anche se io, contrariamente a Roberto, che è nato in un albergo, non avevo alcuna formazione: mia mamma era una cuoca eccellente e avevo appreso qualcosa da lei, ma l’organizzazione professionale è un’altra cosa. La fortuna aiuta gli audaci ed è filata abbastanza liscia. Una sera venne a mangiare Enzo de Prà di Dolada e siccome si era trovato bene, mi propose di visitare il suo locale. Otto giorni di formazione intensiva, cui è seguito uno stage importantissimo da Vissani, maestro di abbinamenti ed equilibrio. E poi i primi riconoscimenti: l’Accademia italiana della cucina, Luigi Cremona, l’ingresso nei Jeunes Restaurateurs datato 1995, la stella Michelin nel ‘97, il nuovo locale nel 2001, le tre forchette dal 2006. All’inizio è stata dura proporsi come autodidatta, perché predominava una cucina ingessata, dall’estetica un po’ affettata. Mentre adesso che tutto sta cambiando mi rendo conto che aiuta”. Parallelamente cresceva la cantina, regno di Roberto: oggi conta 8-900 bottiglie, con punte di eccellenza sotto il sole di Francia e particolarmente in Borgogna.
I prodotti del territorio sono il fulcro dei piatti, che si tratti del pesce di acqua dolce, che tipicamente inaugura i menu, dei funghi e delle erbe, che Fabrizia coglie personalmente la mattina con il cane Lafite (in omaggio allo Château) o soprattutto della selvaggina, specialità che attira a Sappada torme di gourmet.Ed è una caccia che copre tutto l’anno nella piena fedeltà alle stagioni, quelle meteorologiche e pure quelle dell’anima, visto il tocco sempre intimo dei piatti. Ecco allora il piacere di scoprire una tartare di capriolo al caviale (33 euro), dove le uova di storione sparano iodio mentre rimpiazzano l’untuosità del tuorlo.
Piatto esemplificativo di come Fabrizia, nei giochi gustativi come negli impiattati informali, fino alle soglie del naïf, ami sfiorare l’avanguardia senza lasciarsene irretire.Contrariamente ai dettami della nouvelle cuisine, i suoi selvatici vengono sempre frollati, per raggiungere la piena maturità del gusto e ottimizzare le testure. Come accade al cervo scottato a bassa temperatura con germogli di ginepro e verdure primaverili (29 euro), ardito nel suonare note astringenti e balsamiche nitide ma mai fastidiose.
I primi, dalle sfoglie spesse e morbide, un po’ friulane, gettano l’amo nei ruscelli. Un’acqua dolce che per via antinomica abbraccia le volute dell’affumicatura, marchio inconfondibile della montagna. Ecco allora i tagliolini di farina di riso venere con trota affumicata (19 euro), coraggiosa contaminazione fra culture dei cereali agli antipodi. Ma anche i ravioli di camoscio, un piatto della prima ora, e i tortelli di pasta alla carruba con ripieno di tre tome (19 euro), a ricordare che siamo in una terra di grandi formaggi. Una variazione sui cjalzons dalla dolcezza cullante, svegliata dalla farina leggermente grezza, che scartavetra soavemente il palato.
C’è spazio anche per i vegetariani, e persino per i celiaci. I mazzetti di tarassaco, asparagi selvatici, sclopit, ortiche bianche e asparagi selvatici strappati alle montagne sono protagonisti di piatti memorabili, dove riemerge prepotente la memoria gustativa della cuoca. Per esempio il brodo di asparagi, sclopit, spinaci selvatici e spugnole con gnocchetti di luccio (20 euro). Delicatissimo eppure teso nelle note minerali e ferrose; rassicurante nell’evocazione di una cucina contadina e materna, forse un po’ stregonesca, eppure ammaliante per il palato del gourmet.
I dessert sono in linea con i piatti di cucina, tanto da sfidare l’affumicatura (è il caso del semifreddo al cioccolato con prugne secche e grappa, 16 euro) e rimettere mano al fascio di erbe (il gelato di menta e ortiche al tè verde, 16 euro con altri 3 assaggi). Gli sciroppi di fiori di tarassaco o sambuco profumano alcune finiture, senza mai cedere alla leziosità confusionaria dei coacervi di germogli e fiori preconfezionati, che livellano tanti ristoranti metropolitani. Il territorio? “Nella pulizia degli ingredienti. Qui non c’è inquinamento e il nitore si trasferisce naturalmente in cucina”. La femminilità? “Sicuramente. Nella composizione orizzontale dei piatti, dove assemblo diversi elementi creando un equilibrio paritario”.