Ho il privilegio anagrafico di aver vissuto tutte le fasi del cambiamento della cultura enogastronomica italiana grazie alla grande attività ultratrentennale de La Madia e quindi sono da un lato felice di rappresentare la memoria storica del settore, dall’altro stanca di vedere questo stesso settore svilito da una serie di banalizzazioni seriali che vado brevemente a elencare nello stile social delle “cinque cose che non si sopportano”:
1- gli spadellamenti televisivi. Non ditemi che non esiste un modo diverso, più divertente e utile per rappresentare la cucina italiana, a parte i buoni format di Cannavacciuolo e Borghese. La coazione a ripetere lo stesso atto, pur nelle varianti e nelle posizioni diverse che ingredienti e cotture richiedono, ha la stessa stupida intensità delle performance sessuali nei filmini pornografici.
Mi è stato recentemente proposto un ciclo di trasmissioni con il solito cliché “perché è questo che vuole il pubblico”, cosa che ho rifiutato per non contribuire a riportare in tv l’ennesimo replicante;
2 – certi blog – molti, non tutti – ma anche gli articoli degli pseudoesperti, che esperti non sono. Se è vero com’è vero che per insegnare bisogna prima imparare, ditemi perché mai dovrei sorbirmi l’aggettivazione iperbolica dell’accattone di turno che, pur di mangiare gratis, venderebbe la sua tastiera a chiunque. Considerando che persino chi scrive di un argomento ludico/commerciale come il calcio conosce la storia centenaria del Bologna o del Torino, sa di Meazza, Sivori o Piola, ditemi perché gente che non ha la minima idea di chi abbia fatto la storia della ristorazione italiana, da Cantarelli a Paracucchi, da Colombani a Marchesi, venga a pontificare su personaggi e piatti che sono sempre e comunque la risultante di un fisiologico processo di evoluzione;
3 – gli cheffini arroganti. Pur essendo sempre alla ricerca di giovani talenti – che per fortuna esistono e sono in crescente buon numero – non sopporto la supponenza di alcuni di loro ai quali non difetterebbe una maggiore modestia, almeno apparente, e una minore spocchia, specie nei confronti di chi opera da anni nel settore e a cui comunque qualcosa deve, se non altro in termini di rispetto;
4 – i sommelier che consigliano il vino ai clienti, ma poi non lo servono mai, neppure se sono liberi, ritenendo quella del servizio un’attività meno nobile che deve essere svolta unicamente dai camerieri. Anche qui, meno improduttiva alterigia e maggiore spirito di servizio;
5 – il prezzo del coperto. Che coperto non è. Non giustifico tre euro a coperto (ristorante medio) quando, in assenza di tovaglia, questo costo viene giustificato con il servizio del pane. Nel caso tre euro si applichino a quattro o otto commensali, quanto costa ‘sto cestino del pane? Sessanta euro al chilo?
Però sarò sincera: non sono solo cinque le cose che non sopporto…