Nei regimi autoritari la dimostrazione della grandezza di chi comanda è una questione fondamentale e l’enogastronomia per certi versi è un regime a tutti gli effetti. Per questo vengono creati organi appositi che illustrano al mondo i successi del regime: libri, riviste e negli ultimi anni, soprattutto, la televisione.
Il gusto, il palato hanno senza dubbio un’architettura, un’impalcatura specifica adatta a sostenere un piccolo artigiano come un’industria alimentare, ma in entrambi i casi tutto deve essere a misura del popolo. Sempre.
Architettura è anche intesa come disciplina: deve promuovere uno stile nazionale, lo stile della nazione che abitiamo, la nostra Italia.
Dal punto di vista enogastronomico l’arte e l’architettura contemporanea altro non sono se non l’espressione di una sottocultura e quella italiana è di stampo popolare, fatta di tradizioni, povertà e necessità alimentare.
Il cibo e il vino erano e sono la base di questa subcultura sociologica e antropologica.
Mio nonno mangiava per avere le forze necessarie per lavorare la terra, per vivere, e beveva vino per sopperire alle mancanze alimentari. Nulla di più.
Le proporzioni monumentali solitamente dimostrano la grandezza di un impero, di un periodo storico e di una nazione. Se l’Italia potesse esprimere attraverso l’architettura, intesa come arte, il proprio patrimonio culturale enogastronomico, ecco, probabilmente sarebbe visionaria e imponente come il progetto sognato e mai realizzato da Albert Speer.
La nostra cucina, i nostri vini hanno un rapporto molto stretto con il vernacolare, con la terra e la tradizione, come le costruzioni autoctone rivestono un ruolo fondamentale, infatti hanno il compito di diffondere i valori della patria.
L’Italia è un paese diverso in tutto e per tutto partendo dalla geologia che è essenzialmente anti-urbana, per morfologia e per credo.
Contrapporre i sani valori del vivere nelle campagne al caos delle metropoli crea spesso solo alienazione e sgomento, per questo la nostra è una nazione costruita con un linguaggio rurale.
Abbiamo imparato l’amore per la patria e per la storia che governa gli eventi, anche sotto il profilo enogastronomico. Amiamo i nostri vini e la nostra cucina a dismisura anche quando pecchiamo di presunzione.
Siamo un popolo ancora giovane in tutto e per tutto, non possiamo copiare quello che non siamo in grado di riprodurre, dobbiamo sfruttare quello che Dio ci ha concesso: materie prime, intuizione, ma soprattutto fantasia.
Siamo tra i popoli più fantasiosi e abbiamo l’obbligo di continuare. Bocuse ha detto: l’Italia spazzerà via la Francia quando capirà l’importanza delle materie prime che ha a disposizione.
Enogastronomicamente siamo il più grande museo a cielo aperto, cristallizzato, dove il successo si esprime tramite ampi viali, piastrellati da materie prime e visioni intellettuali.
L’enogastonomia in Italia fu fortunata, non infallibile.
Ma se la teoria dovesse risultare vera, bisognerebbe incolpare qualcuno? A quale scopo?
Credo sia molto più importante chiedersi quale è la responsabilità strutturale dei nostri successi o dei nostri insuccessi.
Questo è un segmento basata solo sulla competizione e l’individualismo dove conta solamente chi è più forte? Chi ha di più? Chi si vende meglio e solo chi arriva primo vince? Dunque, per forza qualcuno deve perdere? L’Italia non è questo, l’Italia è squadra, è amore per un obiettivo comune perché parliamo di eccellenza. Sempre più cuochi si spingeranno ad assumersi rischi maggiori e questo può portare a disastri di varie proporzioni perché l’individualismo non porta a niente.
Esistono altre situazioni in cui si richiede prudenza, ma chi decide quando il rischio è accettabile? E come?
Simili decisioni spettano alla collettività, alla nazione, al popolo.
Credo poi che la storia possa sviluppare l’elemento fondamentale di questa scienza, il proprio senso critico, perché l’enogastronomia in fondo è una scienza interdisciplinare.
E poi scienza non vuol dire per forza verità, certezze, ma scienza significa soprattutto riconoscere i limiti della nostra conoscenza.
Ma secondo voi esiste una scienza nell’enogastronomia?
Io non posso che rispondervi in modo estremamente scientifico: non si sa.