Sono arrivato a Orta San Giulio in una giornata di cielo basso, grigio come la strada, ansimante di umidità, e il lago ha trovato il modo di suggestionarmi, con la sua indolenza apparente e l’acqua placida e immobile, dello stesso colore del cielo. Ma un lago, si sa, ha il potere di suggestionare, quasi sempre. La vista improvvisa di Villa Crespi, però, col suo stile moresco da mille e una notte – un minareto alto ad indicare il confine tra la terra e il cielo – no, non sarei mai riuscito ad immaginarla, pur avendola già vista in foto. Bisogna soffocare un moto di stupore, strozzare in gola un “dove sono?”, prima di varcare il cancello di questa incredibile villa, voluta, a fine Ottocento, da un industriale locale che importava partite di cotone dall’Oriente. Tanta fu la sua passione per le architetture arabe da volerne trasportare una copia fedele nell’austera cornice del Piemonte del nord. Oggi Villa Crespi è architettura araba, cucina mediterranea, grande casa dal respiro europeo.
Il merito è di Antonio Cannavacciuolo, detto Tonino non certo per la sua stazza da peso massimo un filo fuori forma, e di sua moglie Cinzia. Nero mediterraneo lui, di Vico Equense. Bionda lago lei, originaria proprio di Orta San Giulio. Perché questa è una storia di equilibri fondata sulle contrapposizioni, o meglio, sulle contaminazioni. Una storia che ha origine nel 1999. Tonino è un cuoco giovanissimo (è del 1975), che approda al lago per amore (di Cinzia) e per dar vita a una grande scommessa. Prendere in gestione, da solo, con una buona dose di incoscienza, una struttura come Villa Crespi, senza essere famoso, per esprimere la sua cucina, per assimilarla ad un albergo di lusso.
A undici anni di distanza – migliaia di clienti passati di lì, tanti riconoscimenti arrivati (la prima stella Michelin s’illumina nel 2003, bissata tre anni dopo) – si può dire che è una scommessa vinta.
Non si può non restare incantati dal complesso già al primo colpo d’occhio, ammirando la struttura, il ricco giardino che la circonda, digradante verso il lago. Una volta entrati, poi, gli stucchi damascati e gli archi a ferro di cavallo conducono lo sguardo verso l’alto, verso la verticalità decorata del minareto. Non deve essere stato semplice scegliere l’arredo adatto per un simile contesto. Ma la scelta appare chiara. A tante linee curve, ad una ridondanza scenografica di decorazioni, si contrappone una ricerca di linearità nella mise en place, un’eleganza molto più austera, un’estrema finezza nei particolari. Il ristorante si suddivide in tre sale, caratterizzate da colori (giallo, rosso, blu), architettura e disposizione differenti tra loro, e una veranda totalmente coperta che si affaccia sul parco e sul lago. C’è poi la sala bar, più moderna, accogliente, con poltrone e una vetrina di specchi dove riposano distillati d’autore.
Cosa danza nel piatto? Intanto si può scegliere tra tre menu. Il Carpe Diem, sette assaggi (più la piccola pasticceria) a 85 euro (con degustazione di vini in abbinamento a 45 euro); l’Itinerario dal sud al nord Italia, 8 assaggi a 115 euro (con vini abbinati a 55 euro) e il Fuori Pista (135 euro), dieci assaggi a mano libera, con abbinamento di “bollicine” full immersion a 75 euro. Alla carta la proposta è molto ampia, con oltre trenta piatti, dall’antipasto al dolce, e i prezzi salgono. A fianco di ogni piatto, l’anno di apparizione in carta: e tranne pochissimi casi (sei, per la precisione), non si va più indietro del 2009, segno di una cucina in continua evoluzione, di una creatività a pieno regime. La cucina di Cannavacciuolo è molto concreta, è decisa, ma elegante. È sapida e mediterranea. È solare, nel senso che ha la forza del sole. Come dice lui stesso: “è bella e giovane”. I piatti rifuggono presentazioni d’effetto, schiume e arie, e puntano decisi al palato. Sono belli, sempre buoni (il più delle volte molto buoni), e vogliono piacere, innanzitutto, in bocca, senza ricercare inutili giochi cerebrali. Gli ingredienti sono del nord (la carne piemontese, il pane di Fobello, il riso Carnaroli, i funghi e i tartufi) e del sud (il pesce, la pasta, gli agrumi, i pomodori, la burrata); sono dell’alta cucina (il fegato grasso, i crostacei, il piccione) e della tradizione (le castagne, le lumache, il maialino in porchetta, la trippa di agnello). È una cucina dalla mano ben riconoscibile, che non ha paura a proporre sapori forti (come è il caso delle lumache gratinate alle erbe, funghi porcini e crema inglese all’aglio dolce), sapidità marine (gnocchetti di baccalà, alghe marine, tartufi di mare), tradizioni rivisitate (guancialino di vitella in civet, castagne e animelle). Un discorso a parte meritano i dolci: fantasiosi e appaganti i dessert, strepitosa la piccola pasticceria, monumentale e ricca come raramente accade.
Quaranta coperti, al massimo quarantacinque. Quanti lavorano alla preparazione dei piatti? Quasi venti persone. Nessuna sorpresa: la proporzione, nella ristorazione di una certo livello, è sempre questa, o quasi. Al fianco di Cannavacciuolo (lui si definisce “più che il braccio, l’avanbraccio, viste le dimensioni…)”, ormai da sette anni lavora Fabrizio Tesse (primo a sinistra nella foto della pgina accanto), cuoco milanese con radici liguri. A lui chiediamo come sia lavorare con Cannavacciuolo (“bello, stimolante, con obiettivi sempre nuovi da raggiungere”) e come è organizzata la brigata di sala. “Adottiamo la classica suddivisione alla francese -spiega-: chef de cuisine, sous chef, garde-manger, entremetier; i secondi sono divisi tra la partita di pesce e quella di carne, c’è poi il responsabile della pasticceria e uno che si occupa della panificazione e dei lievitati in genere. Si inizia a lavorare alle nove e si va avanti fino all’una di notte, a volte oltre, tranne il martedì quando il ristorante è aperto solo la sera, e allora si parte alle 14”. Scesi nell’antro ribollente della cucina, prima che il servizio inizi, l’atmosfera è buona, ancora rilassata. Nei discorsi smozzicati tra una preparazione e l’altra, si percepisce una cantilena inconfodibile, molto musicale: il dialetto napoletano. “Sì -continua Fabrizio Tesse- il 70% della brigata attuale è campana. Per loro Tonino è un buon maestro, non solo di tecnica, ma anche di vita, con il suo esempio”. Ma la cucina di Villa Crespi è più tecnica o più istinto? Per Tesse non ci sono dubbi: “Più istinto. Le tecniche devono servire per valorizzare il prodotto, non per stravolgerlo. Per esempio, un semplice brasato fatto con le tecniche attuali, risulta più leggero, più morbido, con una concentrazione di sapori più netta. Abbiamo messo in carta il civet, tipico piemontese, che nasce con la selvaggina e utilizza il sangue dell’animale. Noi non usiamo più il sangue, ma abbiamo rielaborato il piatto utilizzando il fegato di vitello. Questo è un classico esempio di piatto ripensato, che non va a stupire con effetti speciali, ma arriva diretto al palato. Poi, certo, usiamo cotture a bassa temperatura, il sottovuoto… Ma a fianco c’è lo spiedo, per fare la porchetta”.
Se in cucina sono quasi una ventina, in sala non si scende sotto i dieci componenti. Alla guida della brigata c’è Paolo Ciarramitaro (ultimo a destra, nella foto sotto), maitre a Villa Crespi ormai da tre anni. Con lui operano due chef de rang, quattro commis, un sommelier, un assistente sommelier e un barman. Il servizio è curato.
Tutti i piatti sono portati a tavola coperti da cloches, che vengono sollevate all’unisono. “Per attuare un buon servizio -esordisce Ciarramitaro- ci siamo dati degli standard ben precisi, che ripensiamo quotidianamente per migliorare i dettagli. Abbiamo ottimizzato la qualità di ogni servizio, dalla mise en place, alla tempistica tra una portata e l’altra, al beverage. Diamo estrema attenzione ai particolari, puntiamo ad un servizio decisamente elegante, che si ponga alla giusta distanza dal cliente, senza essere né troppo informali né ingessati”. I piatti arrivano tutti finiti dalla cucina, tranne la costata, per due persone, che viene porzionata in sala. “E se un cliente chiede l’Irish coffee lo preparo io alla lampada, ma è più un mio sfizio personale”. Il compito della sala, dunque, risulta essere soprattutto quello di saper raccontare bene ogni piatto. “Certo, è questo il senso del servizio moderno. La presentazione è molto importante, è importante il suono della voce, il sorriso, la postura”.
Sotto terra, in tre stanze distinte (una per le bollicine, una per i bianchi, l’ultima per i rossi) riposano i vini di Villa Crespi. Ci si accede percorrendo una lunga galleria, i cui i muri sono rivestiti da una boisierie di tappi di sughero, tagliati a metà. La temperatura è pressoché costante (sui 15°) e l’umidità molto elevata. A guidare la cantina, praticamente dagli esordi di Villa Crespi, c’è il sommelier Matteo Pastrello. “A parte una parentesi di tre anni, nei quali ho aperto un mio locale -spiega Pastrello- sono sempre stato qui. Abbiamo circa un migliaio di etichette, ma devo dire che non amo più le carte sconfinate. Cerco piuttosto di proporre una carta vini che privilegia il rapporto qualità-prezzo, tenendo conto che in un locale di questo rango devi necessariamente avere certi nomi di riferimento. Però qui puoi bere bene partendo da bottiglie da 25-30 euro. E ovviamente la carta nasce da una forte sinergia tra cucina e cantina”. Il menu Fuori Pista, con il quale viene consigliato un percorso a tutte bollicine, prevede cinque-sei etichette diverse, dalla Franciacorta allo Champagne fino ad arrivare alla Blanquette de Limoux (Languedoc). Soprattutto sui rossi c’è una buona profondità d’annate, frutto di investimenti mirati. E l’attenzione per il servizio al bicchiere è spiccata. “Mi piace molto servire al bicchiere- continua Pastrello-. Ogni giorno abbiamo in mescita 6-7 etichette di bollicine, un Prosecco, uno spumante piemontese o di un’altra regione italiana, due o tre Franciacorta, generalmente un pas dosè, un brut e un rosé, e poi un paio di Champagne. Abbiamo 4-5 rossi, tre piemontesi, un barolo, un barbaresco e una barbera, di solito un pinot nero dell’Alto Adige e infine un toscano tra Chianti, brunello o bolgherese, e 4-5 bianchi, di norma un piemontese, uno chardonnay, un sauvignon e un francese, magari uno chablis o uno chardonnay di Borgogna. E infine, sei-sette referenze di vini per il dessert”.
Oltre la cantina, Matteo Pastrello si occupa anche dei formaggi. Che non è cosa da poco, visto che qui vengono presentati in due ampi carrelli, che offrono una cinquantina di referenze. “I formaggi vanno moltissimo. Noi li proponiamo sempre, è nella nostra filosofia. E mi piace abbinarci, quando il cliente lo desidera, anche la birra. Sono stato tra i primi a proporre questo abbinamento, già otto-nove anni fa. Ho iniziato con una birra d’abbazia belga. Oggi ho birre di piccoli birrifici”.
A dirigere Villa Crespi c’è Cinzia Primatesta, figlia d’arte, nativa di Orta San Giulio. “Villa Crespi è il connubio di quello che siamo io e Tonino- spiega con un sorriso Cinzia-. Rappresenta il sud nella cucina di Tonino, in tanti ingredienti, preparazioni, sue scelte, ma rappresenta in parte anche il nord, che è la terra nella quale vive da oltre dieci anni. Villa Crespi è sud per tutta la parte emozionale e creativa, è nord nella parte organizzativa, di gestione delle risorse umane. Io penso che da questo punto di vista ci equilibriamo molto. Il punto d’incontro tra me e lui sta proprio nella massima attenzione che poniamo nel coccolare il cliente”. Villa Crespi dispone di 14 camere, scenograficamente architettate, preziosamente arredate. Ci si ritrova in atmosfere d’Arabia, col lago davanti e i monti disposti a palcoscenico. “Abbiamo quattro master suite, due executive suite, due junior suite, due camere relax e quattro superior. Villa Crespi dispone inoltre di un piccolo centro benessere, che si è specializzato in una serie di massaggi molto particolari e in qualche trattamento estetico, e abbiamo in progetto di costruire una piscina entro la fine del 2011”. Casa europea, internazionale, dicevamo, perché la Francia è vicina, la Svizzera pure, la clientela mondiale. “Sì, gli ospiti dell’albergo sono al 60% stranieri. Ci sono tanti francesi, inglesi, tedeschi, svizzeri, americani. Questo è per noi un bene, perché ci permette di destagionalizzare l’offerta, e di confrontarci con culture e esigenze diverse, in un percorso che ci fa crescere continuamente”. In piena stagione, a Villa Crespi, tra ristorante e ricettività, lavorano 35 persone.
Ci siamo incontrati davanti ad un caffè, espresso per me, doppio in tazza grande per lui. Sguardo deciso, atteggiamento accogliente, postura sostanziosa. Cannavacciuolo non è chef che può passare inosservato. Ha i tratti del sud, la fisiognomica, ancor prima che la parlata, lo inchioda al suo territorio d’origine, quello splendido lembo di Campania tra la Penisola Sorrentina e la Costiera Amalfitana che tanti cuochi ha sfornato. Ci sediamo in veranda, ad uno dei tavoli rotondi vista giardino. Il cielo è sempre coperto, ma la luce che si diffonde dalle ampie vetrate è comunque calda. Iniziamo a parlare.
Antonio Cannavacciuolo, un predestinato della cucina.
Non poteva che essere questa la mia strada. Mio padre, chef e professore di scuola alberghiera. La mia innata passione per la cucina. Un esordio molto rapido: la mia prima stagione, come ragazzino di cucina, l’ho fatta alla fine della terza media, prima di frequentare l’Alberghiera a Vico Equense. Mio padre mi ha dato l’opportunità di entrare a far parte di determinate brigate di cinque stelle, stiamo parlando del 1988. Ho girato diversi alberghi a Napoli, poi sono partito per il militare, ad Orvieto.
Dal sole della Costiera alla quiete del Lago d’Orta. Spiegaci come.
Tornato da militare, ho deciso di fare un’esperienza al nord. Mio padre conosceva molti cuochi di Armeno, un paese vicino Orta San Giulio, e mi ha mandato sul lago d’Orta, al San Rocco, dove ho fatto la prima stagione. Poi sono stato all’Approdo, dove ho conosciuto Cinzia. Nel 1997 (era il mio sogno) ho lavorato a Capri al Quisisana, sotto la direzione dello chef Nazzareno Menghini, quando si risentivano gli effetti delle ultime ondate della consulenza di Gualtiero Marchesi. E dopo sono tornato sul Lago d’Orta, per Cinzia. Davano in gestione Villa Crespi e, con l’aiuto di mio suocero, con Cinzia ci siamo detti: “Perché non ci proviamo?”. All’inizio è stato difficile, non avevamo nessuna recensione, nessuno ci conosceva. Nei mesi morti avevamo settimane vuote. Ne ho approfittato per fare due brevi esperienze in ristoranti tristellati francesi, l’Auberge de L’Ill (Illhausern, in Alsazia) e da Westermann al Buerehiesel (Strasburgo), che sono state molto significative per il mio percorso. Ho visto veramente un altro mondo, dove la professionalità è al 110%.
Quali sono state le figure che ti hanno formato?
La prima è mio padre, certamente. Più che insegnarmi, mi ha riempito di consigli, che ancora oggi uso con i miei ragazzi. Mi ha insegnato che questo mestiere è serio e duro. Mi ha detto: “Tonino, non lo fare. Se lo fai, fallo bene”. Poi Nazzareno Menghini, che per primo ha spalancato la mia testa, mi ha fatto conoscere nuovi influssi, più europei, meno napoletani. E in Francia ho imparato la grande casa, la classe, l’organizzazione. Ma non posso individuare un maestro da ringraziare a vita.
Come si è evoluta la tua cucina a Villa Crespi?
Ho iniziato proponendo piatti di lago, sempre con una nota del mio paese, i miei limoni, la mia pasta, per accontentare i clienti della zona e i turisti. In carta mettevo anche qualche mio piatto, del sud. Quando ho visto che la clientela si orientava sempre più verso i miei piatti, ho eliminato gradualmente i piatti di lago.
Con tre aggettivi, come definisci la tua cucina?
Quando la guardo, la vedo bella, e la paragono ad un giovane mediterraneo. È solare, carica, è energia, è un fuoco. Si tende sempre ad etichettare la cucina di uno chef come tradizionale o innovativa, nel mio caso mediterranea o campana. Semplicemente, mi alzo la mattina e cucino quello che mi piace cucinare, senza alibi, senza vedere quello che fanno gli altri. Un collega ad una cena di gala mi ha detto: “Tonino, il tuo piatto, se non mi dicevano di chi era, era il tuo, questo è il piatto di Cannavacciuolo”. È stato un bel complimento.
Cambi spesso il menu?
In dieci mesi cambiamo il menu 4-5 volte. Se guardi i piatti in carta, sono tutti del 2009 e del 2010, a parte le linguine con calamaretti e salsa al pane di Fobello, che risalgono al 2005 e sono ormai piatto storico di Villa Crespi.
Quanto lavori su un piatto prima di metterlo in carta?
Quando dobbiamo cambiare la carta, ai clienti più affezionati facciamo provare i piatti che ho pensato, e mi confronto con loro, perché si cresce assieme al cliente. Poi ci sono piatti che metto in carta senza nemmeno assaggiarli, perché l’esperienza porta a immaginare, immagazzinare i sapori in bocca, a sapere che per forza devono andare bene.
Un piatto deve puntare all’equilibrio tra i suoi componenti o può non cercarlo per forza?
Il piatto deve essere buono, punto. Se è buono, è equilibrato. E poi conta molto l’eleganza, a partire dalla vista. La vista è fondamentale. Quando, sollevando la cloche, sveli il piatto, il cliente in quella frazione lo sta già mangiando con gli occhi, e lo devi conquistare. Poi, se oltre bello, è anche buono, allora hai fatto bingo.
Quali sono gli ingredienti che non possono mancare nella tua cucina?
L’olio extravergine, l’acidità degli agrumi, l’amaro di certe verdure, il pesce. In generale, la mediterraneità. Ma quando parlo di mediterraneità ho in mente una cucina molto allargata. Se cucino il cervo non significa che non faccio cucina mediterranea. Il cervo lo faccio diventare mediterraneo, perchè lo metto a marinare con le scorze di limone, con gli odori del sud, lo preparo con cotture più dolci. Non è che per farlo diventare mediterraneo devo per forza mettergli il gambero vicino. Cucina mediterranea significa dare leggerezza e certi profumi. La cucina mediterranea non è solo ingredienti, ma è anche tecnica. La mediterraneità è nel toccare, nel tagliare, nel marinare, nel cuocere.
E del Piemonte, cosa ti ha conquistato?
Al primo posto la carne. Poi i formaggi, il vino, i tartufi. Meno i funghi, che qui non mi danno quello che conoscevo dei funghi della Costiera, più selvaggi, più profumati. E poi del Piemonte mi ha conquistato Cinzia, mia moglie.
Per te la cucina è più tecnica o più ingegno?
Ben vengano tutti e due. La tecnica è fondamentale. Ma serve anche il genio. Paragono spesso il nostro lavoro ad una squadra di calcio. Se hai il genio fai la differenza, altrimenti rimani sempre a metà classifica.
Qual è la clientela del Villa Crespi?
Ti rispondo con un aggettivo: è bella. Il grande ristorante lo fa il grande cliente, perché quando entri in una sala dove c’è il grande cliente, il cliente capace, si respira aria pulita, bella, positiva. E quando un cliente entra in un ristorante e trova aria positiva, si siede e sta già godendo.
Tre colleghi che stimi particolarmente?
Non voglio fare nomi, perché questo è stato l’errore commesso per tanti anni. Io stimo i cuochi italiani, credo nel gruppo che stiamo formando. Dobbiamo ragionare d’insieme, evitando le piccole beghe di campanile, non scivolando nelle critiche gratuite. Per crescere, dobbiamo elogiare la cucina italiana. Ci dobbiamo mettere in testa che la nostra clientela è una clientela nazionale.
Tu parli di cucina italiana. Qual è la caratteristica che la differenzia da quella francese?
Innanzitutto i prodotti, poi la tradizione e il grande patrimonio delle cucine regionali.
Però in Francia i ristoranti di grande qualità riescono a fare 200-300 coperti pure nei paesi sperduti, in Italia no.
Si vede che è stato fatto un lavoro di insieme, a cui hanno contribuito stampa, ristoratori e clienti. Quando in una nazione cresce solo uno di questi tre elementi, è un male. In Italia dobbiamo recitare un mea culpa generale per il passato, e continuare a fare quello che stiamo facendo in questi ultimi anni, ovvero, fare sistema. Oggi sta crescendo la ristorazione, sta crescendo il giornalismo, sta crescendo la clientela, nonostante un periodo economico non facile.
Torniamo a te. Dal sole e la vulcanità napoletana, alla nebbia e austerità del Piemonte. Cosa ti trattiene qui?
C’è l’acqua, questo è il legame. Sto bene, credimi. Ho una grande famiglia, una grande brigata. Quello che mi lega a questo territorio è l’acqua. Svegliarmi ogni mattino con la vista del lago mi regala una energia pazzesca. Non potrei stare in una zona di pianura senz’acqua.
Qual è il piatto a cui sei più legato?
La linguina, un piatto che dal 2005 è in carta e continuerà ad esserci.
E il piatto italiano?
Vabbè, la pizza.
Pizza al metro della Penisola Sorrentina o pizza napoletana?
Pizza al metro: è la pizza a cui è legato il mio gusto affettivo.
A te piace cucinare, si vede. Potresti guidare una brigata senza mettere mano ai fornelli?
Entrare in cucina e non toccare niente mi farebbe impazzire. Spero di avere sempre questa voglia. E quando non avrò più la voglia di entrare in cucina e toccare le padelle, significherà che sarà il momento di mollare.