Capita raramente, anche a chi fa questo lavoro da così tanti anni, un’avventura di degustazione altrettanto impegnativa. Otto giorni in Salento, dodici aziende vinicole, otto ristoranti, 1.200 chilometri percorsi tra un posto e l’altro, un confronto continuo dalla mattina alla sera.
Scopo dichiarato dell’operazione Rosati in Terra di Rosati è quello di promuovere una tipologia di vino assieme a tutta la porzione di territorio che li produce. Il risultato raggiunto dopo questa nuova esperienza: quello, almeno, di identificare un canone, trovare una chiave di lettura per questo Rosato Pugliese sempre diverso da sé e dai suoi vicini, qualche volta inadeguato, altre volte sorprendente.
Compito non facile in questa regione pur tanto vinicola ma con una storia di imbottigliamento ancora così recente. Ancor più arduo alle prese con un vino di cui poco si conosce eppure tanto si immagina, che poco spiega di se stesso, della sua composizione e delle sue regole.
Il discorso, in teoria, sarebbe facile. In Salento, al Nord, il Rosato si potrebbe fare al meglio con uve di Bombino, magari con un po’ di Montepulciano; al Sud con uve di Negroamaro, Malvasia, probabilmente anche con una quota insopprimibile, ma giustificabile, di Primitivo.
La pratica ci porta invece in tutt’altra direzione e combina vitigni ed abitudini di cantina in un estuario di possibilità in cui è difficile, se non impossibile, orientarsi razionalmente.
Praticamente ogni cantina produce il suo rosato. Quanto ne faccia, quanta parte ne imbottigli, come lo ottenga è oggetto di discussione. “Abbiamo cominciato a farlo perchè ce lo chiedevano” è una frase ricorrente che accomuna molte pratiche aziendali. Le esperienze progettuali dal vigneto alla bottiglia imperniate sul Rosato sono invece poche; generalmente per ricavare il giusto colore e il relativo corpo il produttore ricorre al salasso di una parte dei suoi vini più carichi e di cui ha maggiore disponibilità.
Quanto Rosato viene prodotto oggi in Salento? Impossibile quantificare quanto ne venga distribuito sul territorio, specialmente d’estate, sfuso o direttamente acquistato in azienda. Quanto al numero delle bottiglie pensavo, partendo, che fosse una cifra compresa tra i tre e i sette milioni. Ora, di ritorno, ritengo che il numero complessivo di bottiglie non arrivi a quattro milioni, sicuramente più della metà delle quali, prodotte da sole quattro aziende di respiro e dimensioni ben maggiori delle altre, tutte dotate di una efficiente rete di commercializzazione e distribuzione nazionale e anche di più.
Se questi pur approssimativamente sono i numeri, vorrei però trattare in maniera più approfondita della qualità. Nonostante fossi accompagnato in questa avventura da condivisi luminari della degustazione (mai avari con me di approfonditi e gratificanti commenti tecnici) come Maurizio Gily, Othmar Kiem, Luigi Bellucci, Richard Baudains, Mayumi Nakagawara, Riccardo Farchioni e Carlo Macchi che leggete sempre su queste pagine, preferisco ricorrere alla mia lunga storia di frequentazione col Salento e a quel poco che ho imparato sulle dinamiche del prodotto.
E a parer mio il Rosato di Puglia, a maggior ragione quello salentino, deve essere vino gratificante all’occhio e al palato, facile da sposare alla cucina del luogo, alla concezione più elementare dell’estate, della vacanza e del benessere. Difficilmente avrà troppa eleganza nel colore, ma poco importa. Essenziale è la piacevole sapidità, la giusta componente acida, la correttezza di un sapore neanche troppo elaborato ma di facile identificazione. Sempre fermo, mai frizzante. Ma questo è probabilmente il pensiero un po’ riduttivo di chi ama troppo la Puglia per volerne evidenziare i pur tanti difetti.
Mi è capitato durante questo viaggio di assaggiare anche rosati di tre o più anni di età trovandoli buoni e perfettamente evoluti: sicuramente figli di quella progettualità che, come dicevo prima, è assai rara in tutta la regione per questa tipologia di vino. Eppure la fiducia in un progetto è essenziale per ottenere un vino in grado di resistere agli urti di un viaggio, al susseguirsi delle stagioni, al confronto con mercati più ampi di quello regionale.
Privo di un consorzio di tutela, di dati di produzione, di linee guida e di un’identità forte di riferimento, il Rosato di Puglia (e ancor di più quello del Salento) rimane vino fragile di personalità, in preda alle pulsioni della sua adolescenza. Cosa sarà di lui, come saprà diventare da adulto, cosa sarà in grado di fare nella vita, dipende unicamente dai suoi produttori.